Il reading per Raccolti Festival

Sabato 26 settembre ho tenuto un reading per Raccolti Festival, il festival dedicato alle nuove narrazioni che si svolge a Vercelli ogni anno: il tema del mio intervento era Lingua, il podcast che ho pubblicato per Storytel.

Sono partita da Lingua per scrivere e raccontare una nuova storia dedicata al cibo, tutta intorno alla cucina cinese: così come avevo fatto per la Holden, ho tenuto un reading con un testo inedito, e l’ho fatto per due ragioni:

  1. Quella di un reading intorno al cibo è un format che vorrei portare in giro, sviluppandolo per festival e aziende. Ho fatto le prove, sono venute molto bene direi. Ora di grazia invitatemi: agenzie e festival, aziende e organizzatori. Avete anche bisogno di più donne, avete anche la scusa perfetta.
  2. La lettura di un podcast non rende giustizia al podcast: la sola voce non riesce a ricreare l’universo sonoro di un podcast. Manca la musica, mancano i suoni, mancano le voci. E allora si può andare in una sola direzione: ibridare.

Prima di lasciarvi al testo e al video, vorrei ringraziare Lara Giorcelli, Eugenia Brini, Matteo Bellizzi, Rudy e tutte le persone che lavorano per Raccolti: grazie per il vostro lavoro.

Una storia di aglio e di tazze

Del testo letto per Raccolti vi metto solo un estratto, ma nel video qui sotto trovate l’intervento integrale.

La mia prima volta in un ristorante di cucina cinese è stato circa 30 anni fa: ero a Battipaglia, in provincia di Salerno. Ho vissuto lì in zona, in un paese limitrofo fino ai 18 anni, per poi andare via: se ci penso ora, forse uno dei motivi per cui sono emigrata altrove è per cercare ristoranti cinesi più buoni.

Quindi: avevo dieci anni circa, e quel locale straniero aveva appena aperto: era il primo ristorante cinese di Battipaglia, una novità assoluta. Ero insieme ai miei genitori e mia sorella: di quella cena ricordo la sensazione di ribrezzo di fronte alla gelatina della carne di pollo al limone, insieme al sollievo di terminare la cena, uscire dal ristorante, e prometterci insieme che non ci saremmo tornati mai più.

Avevamo provato un gusto nuovo per la prima volta, e avevamo fatto fronte comune non contro quello che avevamo mangiato, ma contro la possibilità stessa di sperimentare.

Qualche anno dopo, affianco a quel ristorante cinese, aprì un locale filoamericano tipo Hard Rock Cafè: Cadillac finte, frappè grassi, hamburger troppo cotti e camerieri pettinati benissimo. Fu un successo: anche per me che ero un’adolescente che amava più i Nirvana che Jovanotti, entrare lì dentro dava una sensazione di pieno benessere.
Lì, tra colori pop e patatine fritte, mi sentivo frizzante, allegra, mi sentivo una vincente.

Uscivo da lì e passavo a fianco del vecchio ristorante cinese: non ho mai pensato di tornarci, per anni, perché tra il pollo gelatinoso e l’hamburger americano stracotto, io volevo essere l’hamburger: conforme, e non giudicabile. Volevo essere quella vincente, e non quella strana.

Indovinate, però: io ero strana forte e alla lunga ho lasciato perdere le Cadillac. Ho esplorato gelatine, animali, verdure, abbinamenti.
È stato il cibo, insieme al suo potere di connettere le persone con le altre persone, a indicarmi una strada diversa: quella che, col tempo e con gli assaggi, ha contribuito a formare la persona che sono oggi.

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Pensiamo al cibo e ci vengono in mente i sensi: tatto, odore, suono, vista e gusto. Ognuno di questi sensi spalanca le porte di ricordi, emozioni, riflessioni: avete tutti in mente le Madeleines di Proust, ma cosa dire del suono del matterello sul tavolo, il fischio del bollitore, la visione della schiumetta sul caffè o dell’odore del latte caldo col miele? E ancora: le liste della spesa sul frigorifero: quante cose ci dicono?
Si può raccontare il cibo partendo dai sensi, o si può spostare l’attenzione sulle storie che il cibo evoca: ogni storia, se ci pensiamo, può essere raccontata attraverso il cibo.

Prendiamo Brothers, di Yu Hua: un romanzo, edito da Feltrinelli, che racconta la storia di due fratelli che crescono a Liuzhen, in Cina. In una scena del romanzo, uno dei due fratelli sogna dei baozi, e al risveglio lo racconta all’altro: subito corrono a mangiarli, pieni di desiderio.

I baozi, cioè dei panini al vapore farciti di carne o verdure, e aglio, tantissimo aglio, vengono nominati in diverse scene del libro: i fratelli adorano i baozi alla carne di maiale, col ripieno fumante e il sugo della farcitura che cola all’angolo della bocca.

Non avevo mai assaggiato i baozi, fino a qualche mese fa, quando li ho mangiati a Torino insieme al mio fidanzato: ci frequentavamo da poco, e io non vedevo l’ora di assaggiare un piatto di cui avevo solo letto. Avevo lo stesso desiderio dei fratelli di Yu Hua.
I baozi che ho mangiato sono stati buonissimi, ma più di tutto ricordo i baci unti e al sentore d’aglio che ci siamo scambiati dopo: erano buonissimi anche loro.
E ora, scommetto, avrete voglia di baozi.

L’ultima volta che sono andata al ristorante cinese è stato due domeniche fa: ero andata al mercato dell’antiquariato che si svolge a Torino la seconda domenica di ogni mese, ma sono scappata subito perché c’erano troppe persone, e in questo momento io non mi sento al sicuro in mezzo alla folla.

Era una domenica in cui ero sola, e avevo voglia di qualcosa di gratificante: ho deciso quindi di andare da Wang Jiao, un ristorante di cucina cinese vicino a Porta Susa, a Torino.
Ho conosciuto questo ristorante nell’anno in cui ho lavorato e vissuto da pendolare, da Torino a Milano, e ritorno. La sera, quando rientravo a Torino, dopo trasferte magari piuttosto faticose, uscivo dalla stazione e mi fermavo qui.
Era il posto dove arrivavo con la valigia, e dove la posavo. Dove qualcuno cucinava per me. Una specie di casa, se volete.

Era il posto dove per anni poi ho portato tutti gli amici, e dove ogni volta ridevamo insieme quando nel menu vedevamo “le verdure senza cuore”.
Cosa saranno mai queste verdure crudeli e temibili, ci chiedevamo?
Solo di recente ho scoperto che è la traduzione letterale di kōng xīn cài, cioè “verdura dal cuore cavo”, che in America conoscono come spinacio d’acqua.
Per le vostre partite a Trivial Pursuit, sappiate che il nome ufficiale della pianta è Ipomea aquatica.

In ogni caso: due domeniche fa, da Wang Jiao, ho ordinato le verdure senza cuore, e la cameriera mi ha avvertito che erano con l’aglio.
“Nessun problema”, ho risposto.
Ho chiesto poi degli gnocchi di riso con il maiale, che è uno dei miei piatti preferiti: quel giorno si sono sbagliati e me li hanno portati con l’anatra, ma li ho mangiati senza fare storie.
A due tavoli di distanza da me c’era una coppia di signori anziani, un uomo e una donna: avranno avuto 70, 73 anni, l’età di mia madre. Non sono riuscita a capire se fossero fidanzati o una coppia di vecchi amici: erano molto familiari tra di loro, non proprio intimi, ma forse quando si pranza fuori si pensa a mangiare, non a limonare.
(Poi ecco, dipende).

La coppia ha fatto tantissime domande alla cameriera, con genuina curiosità: hanno quindi ordinato almeno 6 o 7 piatti, con entusiasmo.
Guardandoli, ho pensato a quanto quelle persone fossero ancora curiose, e anche a quanto fosse improbabile che 40 anni fa avrebbero potuto immaginare quel momento lì, seduti insieme in un ristorante di cucina cinese aspettando gli spaghetti di soia su stufato di trippa.

Il cibo, ho realizzato in quel momento, è uno dei modi in cui ti dai la possibilità di cambiare: un piatto di un paese straniero ti connette con una cultura diversa, e un pranzo può fare della tua cultura personale qualcosa di più ricco, e variegato.

Mangiare è un cammino, se siamo da soli, è una danza, se lo condividiamo.

Quanti piatti nuovi abbiamo assaggiato da quando siamo nati? Quante cose diverse dai sapori di casa abbiamo scoperto col tempo? E quanto tutti questi assaggi, e suoni e odori, ci ha reso persone più aperte, e connesse?
Il cibo è un patrimonio culturale, si dice, e spesso si intende un patrimonio di un paese: ognuno di noi, però, ha un proprio patrimonio da coltivare, da far crescere, da condividere, e molto spesso si trova nelle nostre dispense.

Quella domenica, quando ho rimesso la mascherina, è stato un momento difficile: le verdure senza cuore che avevo mangiato contenevano una quantità letale di aglio. Sono sopravvissuta, però, sono tornata a casa e ho finito di scrivere questo pezzo: eccoci qui.

Il video integrale del reading di Raccolti Festival

Qui trovate il video: grazie a Matteo Bellizzi per la splendida introduzione.

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