Come disfarsi della sindrome dell’impostore

Qualche giorno fa ero sul divano, col Mac sulle gambe e il mio gatto Sushi al mio fianco: erano le 7 di sera ed era quasi buio perché stava per scoppiare un temporale. Ho intravisto l’autunno che verrà: il fresco, le giornate corte, e il riposo a modo mio.
Ho percepito una quantità pazzesca di soddisfazione, e non me ne sono sorpresa.
(Non mi sorprendo nemmeno di un titolo così ruffiano, fate voi).

Questo è l’ultimo post prima delle vacanze, per poi rivederci a settembre quando svelerò Giorgione.
Anzi, segnatevi anche questo: a ottobre terrò un corso di blogging da SLAM dedicato alle aziende e ai liberi professionisti (ci sono ancora dei i posti con lo sconto, poi finiscono).

Ho scelto di parlare di fatti che mi dicono che oggi, a 38 anni, in questa calda estate, mi sono disfatta della sindrome dell’impostore.

Se lavorare (tanto) importa

Negli ultimi mesi ho lavorato a testi, piani editoriali, contenuti per clienti molto diversi, e non ho dovuto ricominciare ogni volta: ho un metodo per capire a quale cliente si rivolgono, ho uno schema per costruire un piano editoriale, ho un questionario per impostare il lavoro sul personal branding e così via.

Se devo aggiornarmi su Instagram, so a quale sito accedere; se ho dei dubbi su come si scrive una parola, ho i miei dizionari; se non so quale blogger chiamare per un evento, chiedo una mano al mio network.
È successo tutto all’improvviso, o questa è la maturità lavorativa di cui (poche volte) ho sentito parlare?

13 anni di storico lavorativo, 5 anni in proprio: lavorare tanto, tantissimo, importa.
Questo tempo è servito a costruirmi un bagaglio di strumenti che mi consentono, ogni volta, di evitare quella paura: “non lo so fare, non so come si fa”.
Sì, Mariachiara, lo sai fare, perché lo hai già fatto.

Ma non basta.

Il dio del farcela per caso non esiste

Non avrei potuto fare il web designer, o l’avvocato: non riesco a entusiasmarmi per i cavilli, per i codici, per cose a cui non so assegnare un odore.

Il mio lavoro mi fa stare bene o male sempre su un piano pieno di cose che saprei condire e impastare, però mi è capitato quest’anno di trovarmi in due luoghi opposti:

  • Il non luogo delle liste di MailChimp, una città di palazzine tutte alte uguali sorvolata da uno stormo di piccioni;
  • Dall’altra il copy puro, quello dei claim e delle call to action, uno spazio morbido tra nuvole e meringhe dove ogni cosa è trasformabile in un’altra.

Due anni fa avrei lottato tra vittoria e insoddisfazione, scegliendo di dedicare molto tempo e di espandere parecchio la difficoltà e l’impegno di quei tipi di lavoro. A ripetermi per ore:

Oh dio, come si fa.
Oh dio, non lo so fare.
Oh dio, ce l’ho fatta ma è stato un caso. 

Quest’anno l’ho risolta con due affermazioni:

  1. Ci vuole troppo tempo per imparare a gestire questo aspetto, chiedo una consulenza a chi ha più esperienza di me (MailChimp)
  2. Per cercare un risultato che mi soddisfi, voglio provare a sperimentare strade diverse (Copy)

Alla fine anche l’ansia diventa un elemento pratico da incastrare tra una lavatrice e una fattura: forse si è ridotta, di sicuro si è contratta l’abitudine a sfiduciarsi.
Mi è stato molto d’aiuto smettere di lamentarmi anche nella vita, ma su questo che vi devo dire: andate in terapia.

Il tuo metro sei tu

Ci sono molte persone che lavorano con approssimazione, e io stessa non sono perfetta in tutto (ma quasi, eh).
C’è un percorso però che ho sperimentato, e che a ha che fare col confronto: eccolo.

  1. Il primo passaggio è confrontarsi con chi lavora meglio di te: è stimolante, e può essere frustrante.
  2. Poi c’è il momento in cui osservi chi fa peggio di te: non vi consiglio di cercare attivamente una serie di professionisti che reputate meno qualificati di voi, eh. Però teneteli lì, tipo il soprammobile imbarazzante che vi ha regalato zia Antonietta: quando finite un lavoro, e non siete soddisfatti, chiedetevi se quelle persone avrebbero potuto fare di meglio.
  3. Il terzo passaggio, l’ultimo, è quello in cui l’unico metro di misura siete voi stessi: quando finisco un lavoro, mi ripeto che ho fatto del mio meglio, e ne sono molto felice.

Cavolo, che bontà

Non so dirvi in quale tombino ho lasciato andare la sindrome dell’impostore, o se come i mostri degli anni Ottanta risalirà lo scarico del bagno per assalirmi di notte.

Credo che ci sia una mistura di elementi: lo storico di esperienze, l’equilibrio dato dalla terapia psicologica, il fatto che sono cinque anni che mi mantengo da sola, il lavorare con clienti sempre più belli (a questo proposito, ho aggiunto una sezione su Linkedin che si chiama Con chi sto lavorando).

Non c’è un punto da dove iniziare, quindi, quando ti metti in proprio o lavori per altri: c’è però che arriva il momento in cui non ha davvero senso perdere tempo a dirsi che non valiamo. Che non siamo abbastanza. Che gli altri sono di più.

E in questo momento, è il caso di vedere tutto quello che abbiamo ammassato, infilarci il dito dentro e dire: cavolo, che bontà.

Se tornassi indietro cercherei solo di misurarmi con me stessa più che con gli altri, prima di ogni cosa. Forse mi sarebbe servito per crescere con le spalle più larghe, o per conoscermi di più e capire di cosa avevo paura.

Ma sono contenta anche così, sono contenta di tutto.

[Photo by Audrey Fretz on Unsplash]

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Ci sono 3 commenti

  1. Un post di grande ispirazione! Convivo da anni con la sindrome dell’impostore, e ti devo confessare che prima di leggere questo tuo post non avevo mai pensato seriamente che, ecco, forse, anche io col tempo ho iniziato ad accantonarla. Non credo di averla definitivamente buttata in un tombino, perché continuo a sfidarmi con cose che non ho mai fatto prima, quindi c’è sempre il momento iniziale in cui mi dico ”vedrai che tutti penseranno che sono una schiappa”. Ma sicuramente il tempo in cui mi dico che non valgo abbastanza si è ridotto notevolmente. Grazie per la lettura!

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