C’è stata una vita in cui scrivevo di cibo e ristoranti per guide e giornali: ho cominciato a essere pagata dopo un paio d’anni in cui ho scritto gratis e per il mio blog. Ricordo ancora la prima volta che ho chiesto di essere pagata: era per il sito Dissapore, che era nato da poco e come tanti siti di allora non aveva ancora chiaro come guadagnare. Aveva chiaro cosa non pagare, e cioè: i collaboratori e le collaboratrici.
Quando avanzai la richiesta di una retribuzione ad articolo, l’allora direttore mi rimproverò di non tenere abbastanza al mio ruolo in Dissapore: immagino perché la pretesa di considerare i soldi come qualcosa di importante mi squalificasse come scrittrice. Forse non avevo abbastanza passione.
E quindi mollai.
Questo episodio mi è tornato in mente in questi giorni in cui ragiono su come parlare di lavoro e privilegio, perché al netto del tempismo e delle gestioni discutibili di contributor e giornalisti, certe redazioni e certe aziende sono rimaste intere e lo sono ancora grazie a persone che come me hanno fornito la propria competenza in maniera gratuita o per quattro spiccioli: perché, in sintesi, ci siamo potuti permettere di lavorare gratis.
I privilegi vanno a braccetto con le disuguaglianze, e con alcune domande:
- Se volessi diventare una giornalista gastronomica, mi basterebbe frequentare un master costoso?
- Se volessi comprare casa, mi basterebbe lavorare sodo tutti i giorni?
- E se volessi fare carriera in un’azienda torinese, sarebbero sufficienti i miei meriti?
Insomma: quanto è vero il “Se vuoi, puoi” quando si parla di accesso al lavoro, alla casa, al potere? E anche: a cosa rinunciamo quando invece non ci proviamo?
Il discorso comincia qui: proseguirà poi sul mio canale Instagram con una serie di interviste in diretta, per provare a raccontare con onestà come si arriva a certi lavori e a certe posizioni mostrando strade realistiche, e portando una riflessione sui privilegi. Intervisterò professionist* del food perché questo è il settore che conosco e che mi interessa, ma scommetto sarà utile per persone di ogni settore.
Una premessa: chi scrive, qui
Ciao, sono Mariachiara Montera, ho 41 anni e sono una libera professionista: sono stata cresciuta in una famiglia borghese che non mi ha mai fatto mancare nulla, compreso il pagarmi l’università e il vivere fuori casa durante gli studi.
In famiglia abbiamo avuto degli scossoni economici e periodi di debiti, quindi alcuni periodi di maggiori ristrettezze. Durante le estati ho sempre lavorato, per avere qualcosa in più e non per mantenermi. Ho cominciato a lavorare subito dopo l’università, prima in diverse aziende e poi da freelance: mi mantengo al 100% da sola da 10 anni circa, senza chiedere un euro alla mia famiglia ma solo alla banca, a cui ho chiesto due prestiti nel corso di questi ultimi anni in vista di spese extra che non sono riuscita a sostenere.
Non ho nulla di proprietà: case, auto, altri beni. Al momento col mio fatturato vivo una vita decente: riesco a far fronte a eventuali spese extra, potrei comprare al massimo un bilocale, lavoro con clienti che riconoscono la mia esperienza, sto ancora pagando il prestito, e vivo a tutti gli effetti nel primissimo mondo.
Lavoro con una tariffa oraria che mi permette di pagare spese, affitto, cibo: svolgo alcuni lavori che sono pagati meno, come quelli di scrittura, lavorando di più su altri fronti e pensando siano un investimento per fare gli stessi lavori in futuro e poter essere pagata di più. Ma ecco svelato il primo tranello: in quale ultramondo il lavoro è considerato un investimento e noi ci autoposizioniamo come risorse sottopagate? Eccolo, è questo.
Ultimo: non mi considero un’attivista e nemmeno una divulgatrice. Sono solo arrabbiata perché smanio per cambiare la mia posizione sociale. E leggo, e lavoro, scrivo e mi confronto per capire come fare. Sono stufa di un certo modo di fare attivismo che è quello che usa i termini incomprensibili. Non ho soluzioni concrete ma ragionamenti spero solidi.
Cominciamo.
L’ascensore sociale malmesso
Elisa Berlin su The Vision scrive:
L’Ocse ha stimato che, in Italia, una persona nata nel 10% delle famiglie più povere potrebbe impiegare cinque generazioni per raggiungere il reddito medio. La possibilità di arricchirsi è sempre più legata alla propria condizione di partenza e, nonostante la narrazione prevalente continui a ripeterci il contrario, sempre meno dipendente dalla propensione dei singoli all’impegno o al sacrificio.
Se è vero che il successo va conquistato, è altrettanto vero che tutti dovrebbero avere la possibilità di farlo. Altrimenti non si tratta di conquiste ma di privilegi, sintomi di una società strutturalmente classista che sopravvive grazie allo sfruttamento di chi non li detiene.
Non so che effetto abbia fatto a voi, ma io mi sono sentita confortata: allora ho ragione a essere incazzata, mi sono detta. E subito dopo: la tua è solo invidia, ed è scorretto esprimerla. E poi: ragazza mia, ma leggi qualcosa sull’ascensore sociale e scoprirai che il tuo sentirti invidiosa è frutto di un sistema capitalistico che ti lascia immobile e fremente e cosa ci puoi fare se non incazzarti.
Quindi facciamo un passo indietro, e rispondiamo alla domanda: cosa è e come funziona l’ascensore sociale in Italia?
La Treccani, alla voce Ascensore sociale, lo spiega come il
Processo che consente e agevola il cambiamento di stato sociale e l’integrazione tra i diversi strati che formano la società.
In pratica, è quell’insieme di studi, lavori, reti che portano un individuo a migliorare il proprio status social rispetto alla famiglia da cui viene: in teoria, a parità di opportunità, la ricchezza e il cambiamento dovrebbe interessare chiunque abbia accesso a quegli studi, o lavori, o reti. In Italia qualcosa, però si intoppa:
- La ricchezza rimane qualcosa che si trasferisce dai genitori ai figli
- I guadagni dal lavoro hanno un ruolo minoritario rispetto alle rendite da capitale
- Se nasci pover* potresti aver bisogno di 5 generazioni per ritornare in una fascia media di reddito
- L’accesso a certe scuole e università facilita l’accesso a professioni meglio retribuite: per il livello della formazione, ma anche per la rete di contatti che acquisisci.
- L’accesso ad alcune posizioni è facilitato da una rete di contatti pregressa quindi dal capitale umano e simbolico della propria famiglia.
Insomma: cambiare status sociale è possibile, ma non sempre e di sicuro non contano sempre e solo i meriti.
Le carriere nei lavori del cibo
Mentre scrivevo questo articolo, mi è venuta in mente una frase: non ricordo da chi l’ho sentita, e chiedo perdono per non citare la fonte.
La frase dice
You pay, therefore you work
Paghi, quindi lavori. Paghi per ricevere uno stipendio, che forse non copre i costi di quel lavoro: sembra assurdo, eh, ma ad esempio è il lavoro della critica gastronomica, nella maggior parte dei casi.
In tutti questi casi, io sono convinta di una cosa: non sapere può provocare inadeguatezza, sapere può aiutare a prendere le misure. Anche solo per chiedersi: cosa posso cambiare per modificare la mia posizione? Ora che so che i miei meriti non sono sufficienti per diventare più ricca, come posso migliorare la mia posizione economica in altri modi?
Io vivo in una città dove un numero spropositato di persone ha case di proprietà che ha ereditato, ha frequentato scuole con altri rampolli che sono diventati poi colleghi, e in alcuni casi non ha nessun bisogno di lavorare: come avrei voluto saperlo prima di trasferirmi a Torino invece di passare anni a sentirmi inadatta quando semplicemente non ero nata qui e da certe famiglie. Avrei voluto un Torino starter kit.
Penso allora ai lavori del cibo: food writer, Influencer, imprenditori, uffici stampa. Sono e siamo tutte persone che abbiamo potuto perché voluto? Dando per assodato l’impegno personale: che percorsi abbiamo fatto? Che privilegi abbiamo avuto? Come abbiamo costruito la nostra rete di contatti? Chi ha pagato i nostri studi? Quanto hanno contato il contesto e le conoscenze? Cosa abbiamo tentato con enorme impegno?
Sono domande di cui proverò a mostrare alcuni percorsi, per aiutare a prendere le misure e per continuare a smaniare, ma con un criterio più vasto e sensato del “se vuoi, puoi”.
Ci vediamo su Instagram, dove un po’ per volta ospiterò professionist* del mondo food per parlare di percorsi, giri, reti, competenze.
Se volete scrivermi raccontandomi il vostro percorso e la vostra esperienza, fatelo qui: ciao@mariachiaramontera.it.
Ah, le ho chiamate Pagnotte (grazie degli stimoli a Marianna Martino e Alice Orrù).
Fonti
Ecco alcune fonti che ho consultato per scrivere questo articolo:
- Informazione senza filtro: il mismatch all’italiana
- The Vision: l’ascensore sociale è rotto
- I post e gli articoli di Alessandro Sahebi
- Il rapporto Rota su Torino
Per finire, cosa c’è di meglio di quest’illustrazione della bravissima Diari di Brodo.