C’è una canzone dei Baustelle che recita
La morte non esiste più
Non parla più, non vende più
Mio folle amore
La vita non uccide più
I nostri baci, i nostri sogni
E le parole
Mi è venuta in mente in questi giorni, e non a proposito di tempo, morte e vita ma di una cosa più semplice, e nello stesso tempo mille volte più difficile: l’accettazione.
Ho convissuto a lungo con l’ingombrante presenza di una me sempre giudicante: una vita a vedermi da fuori e a dirmi che ero troppo sorridente, troppo pigra, troppo rigida.
Molti di voi lo sanno: è il pensiero che vi dice che
le vostre imperfezioni fanno di voi persone e professionisti peggiori
Ma il punto è: peggiori, o migliori di cosa?
Ecco il mio coming out: un elenco di cose a cui mi appiglio quando la vita non gira, quando il soffione si bagna, e le alici si spezzano perché l’olio del frigo è troppo sodo. Sono le parti di me di cui non ho compassione, verso cui sono critica ma non al punto da cambiarle: io miglioro tutto, ogni vena e ogni ciglia, ma forse, se a qualcosa dobbiamo ambire, è rendere cioccolato e panna quello che siamo tutte le volte che possiamo. Il resto è un sorbetto, e non fa schifo.
3 cose critiche di me
1. I’m a solo worker
Lo scorso weekend sono stata in viaggio stampa in Trentino con il Consorzio del Trentodoc, di cui vi parlerò con calma: con noi c’erano Cristina e Arianna, socie dell’agenzia stampa. Le conosco da anni: hanno cominciato a lavorare insieme come freelance, per poi fondare la loro società: sono brave, tenaci, sorridenti, costanti, lavorano bene.
Qualche giorno fa, mentre parlavo con Cristina, le ho detto dal profondo del cuore:
Sei brava
e mi sono sentita alleggerita da una sensazione di stima senza ombre.
“Sei brava”, ogni tanto, è stato seguito nel tempo da una scia quasi imbarazzata che si riassume in:
E io non so se lo sono
Quando ho sentito questa leggerezza mi sono stupita, come mi sorprendo di tutte le sensazioni nuove di questo 2019: la terapia mi sta aiutando a vivere in maniera onesta, e a perdere per strada la vergogna e la paura come gocce di sudore agostano.
Ho detto “Sei brava” a Cristina altre volte, ma tutte le altre volte l’ho visualizzato sulla bilancia: lei ha saputo fare qualcosa e io no: creare un team, una struttura, avere una socia.
Di nuovo, lo sapete anche voi: dietro l’insicurezza si leva stridula una sorta di disdicevole ingordigia delle competenze altrui. Come ha fatto, come si fa, perché io no. Siamo esseri umani meschini quando non crediamo di essere abbastanza.
Ho lavorato con Francesca con la Foodie Geek Dinner e non l’abbiamo portata avanti, con TravelWithGusto sono io a prendere decisioni e poi a consultarmi con gli altri, nelle aziende dove ho lavorato ho amato il team ma ero intollerante rispetto ai tempi altrui.
Io, io, io.
Non ho mai pensato di spostare la prospettiva: ho preferito accodare la mia indole alle esperienze e ai contesti altrui.
Oggi invece indago con curiosità cosa rende felice me: prendere decisioni, ad esempio. Scommettere su progetti più solitari, in cui metto alla prova cosa so fare.
Mi sento “brava”, e so di esserlo in maniera diversa da Cristina, da Arianna, da tutti gli altri freelance che conosco e che hanno creato strutture e team: evviva, mi sto staccando dalle mie insicurezze, sto approdando a nuova pienezza. È fatta di me, di quello che so e che mi piace fare, e mi basta.
Sono una solo worker, oltre che una solo traveller: magari me la racconto, ma a questo punto costruiamo le narrazioni che ci rendono più soddisfatti, no?

2. Sono brava, sono molto brava
Da sempre sono stata una persona che ha ricevuto molti complimenti e attestazioni di stima: dalla maestra delle elementari, a quella del liceo super severa che mi definiva senza tanti giri di parole “un genio”, al mio amato professor Bollini dell’Università di cui conservo ancora la penna che preferì regalare a me anziché a suo figlio – sorry Giulio, amici come prima.
E ancora: come sei brava a disegnare, a scrivere poesie, a leggere, a parlare di cibo, a trattare con le persone, come è bella la tua anima, le tue tette, i tuoi occhi.
Ecco, io con i complimenti non ci ho mai fatto del tutto la pace.
Capirete che è un bagaglio mette sulla bilancia un certo peso: non chi sei, ma quanto sei brava. Una vita di performance, che gioia.
L’altra cosa che avrete intuito è che per quanto uno crede di essere bravo, l’essere elogiati per quello che sai fare con una certa facilità rende più complicato mettersi alla prova su quello su cui rischi di fallire: migliorarsi richiede umiltà, ginocchia spezzate e ricostruite, successi ottenuti su qualcosa che hai imparato a fatica.
Una delle esperienze di vita che mi è stata più utile è stato il corso da bartender che ho fatto 3 anni fa: ero scarsissima, la peggiore del gruppo. Ho imparato il 5% di quello che hanno imparato gli altri, ma quel 5% mi ha portato molta più soddisfazione di mille altre esperienze nella vita. Non mi sono mai detta “non sei abbastanza brava”, ma anzi: le volte in cui riuscivo a servire 3 cocktail rispettando la linea mi sentivo onnipotente.
Ho dimostrato il mio valore in un contesto poco familiare dove l’unico elemento che contava era l’appagamento nei miei confronti in un terreno dove nessuno aveva mai messo becco: fosse sempre così la vita, eh già.
Nelle scorse settimane una persona per me molto importante mi ha chiesto di dedicarle delle parole, e il mio pensiero è stato:
aridaje con sta’ storia che sono brava
L’ho pensato proprio così, con lo sbuffo di chi non vuole mettersi nel proprio posto nel mondo e occuparlo con fierezza.
Poi col passare dei giorni questa sensazione è andata via, ho scritto quelle parole, gliele ho consegnate, e di nuovo ho sentito qualcosa di diverso: non più l’incombere di un tappeto intriso di fango sulla testa ma la leggerezza di fare qualcosa di bello, per me e per quella persona.
Forse questo può essere più difficile da capire, ma di nuovo: se fino a oggi sei stata valutata in positivo per qualcosa che per te “era nelle mie corde” e hai “ottenuto senza sforzo” – certo, nemmeno la cacca è senza sforzo -, ti si sviluppa una sorta di tic: continui a fare quello per cui gli altri ti dicono brava, hai badilate di ansia e di blocchi su tutto il resto.
È il timore di non essere all’altezza insieme alla consuetudine di essere giudicate su performance su cui non hai mai fallito: auguri, eccomi psicologa, continuiamo pure a chiacchierare.
Spesso mi sono tirata indietro, e oggi, invece, provo a dirmi brava per aver carpito anche solo il 5% difficili in contesti poco familiari: e allora, mi metto sullo sgabello e canto.

3. Ho il fiato corto
Questa è facile: rendo molto all’inizio e meno alla fine. Sono brava ma non mi applico, sono brillante subito e più arida col tempo.
Nel lavoro, si è tradotto in un rapporto di grande generosità nel primo anno di collaborazione e poi una certa difficoltà a tenere alto l’entusiasmo.
Vorrei essere migliore, ma sono quella che sono: l’ho risolta permettendomi di affezionarmi a miei clienti, e a togliermi dalla parte operativa.
Il volergli sinceramente bene mi permette di avere quel ruolo di coach che fa parte di me in maniera spontanea, che è una linfa continua.
Il non dover gestire le parti più operative mi consente di rendere bene facendo quello che mi piace: avere idee, mettere a disposizione creatività e ragionamenti senza farmi logorare dal Business Manager.
Credevo che il senso di sfida di imparare quelle cose che entusiasmano gli altri avrebbe colto anche me: invece, la maggior parte di quello che è operativo mi rende una persona peggiore. Ansiosa, nervosa, abbrutita. Continuo a formarmi e a imparare, ma dio: io mi sento in pace e appagata nell’avere idee, nel costruire percorsi dei clienti, a fare piani di contenuti.
Voglio vivere così, col sole in fronte e le liste di Mailchimp nell’ignoranza.

Il freelance eroico
Nella viticoltura c’è una parte che si definisce “eroica”: si applica a quei vigneti che si trovano in zone impervie, “per colpa del terreno, del clima, della pendenza, della quota estrema” (Touring Club).
Chi lavora in quei vigneti fa una fatica tripla, a fronte di un risultato ottimo: si arrampica, soffre il clima, lavora in condizioni di autentico sforzo.
Mi sono sentita a lungo un freelance eroico, e forse è una condizione connaturata alle scelte di chi, quando si mette in proprio, sa che dovrà impegnarsi in territori astrusi. Che dovrà fare di più, sapere di più, farsi il culo di più. È una condizione che appartiene anche a chi è dipendente, in molte aziende.
Tutti abbiamo un nostro intricato vigneto, in cui ci sudiamo lo sforzo di gestire fatture, new business, scadenze, formazione.
Eppure, questo eroismo a un certo punto smette di essere appassionante, in determinate condizioni: quelle in cui le competenze trasversali ti trasformano in un essere mitologico lontano da te. Le condizioni in cui la necessità di vendere il proprio lavoro passa dal saper fare 100 cose in più rispetto a quelle che ti appassionano. In cui sei inglobato in queste 100 cose e ti dimentichi cosa ti piace.
Forse, quando siamo piccoli ci costringiamo a innamorarci di tutto, e questo passaggio, sperando sia un passaggio verso una crescita economica e professionale molto più in alto, ogni tanto mette a disagio: ci dice che non sappiamo fare abbastanza cose, che non abbiamo il fiato lungo, che se qualcuno ci paga per quella singola cosa in cui siamo bravi dobbiamo comunque metterci alla prova nelle altre 99.
Mettersi in proprio non è per tutti, o forse essere più bionde aiuterebbe: nel lungo termine, ci costringe a sapere cosa vogliamo diventare, cosa ci rende soddisfatti, quanto siamo bravi, o in cosa non lo siamo.
Non possiamo prenderci carico di quello che non siamo e rincorrere un’idea sbagliata: saper fare più di quello che riusciamo è una di queste.
Non ho una morale, ed è una di quelle cose di cui a volte vengo rimproverata:
Lasci i post aperti, senza una conclusione.
E mica sono Montemagno, rispondo.
Ma qui, mi sento di concludere così: sapere cosa non sai fare, o chi non sei ti consente di trovare nuovi percorsi molto di più appaganti rispetto allo zappare vigne eroiche.
O almeno, ti permette di sapere che essere eroici non è l’unico modo di essere freelance.
[Photo in evidenza by Susanne Schwarz on Unsplash]
“avere idee, mettere a disposizione creatività e ragionamenti senza farmi logorare dal Business Manager.”
Forse mi serve il numero della tua psicologa.