È la seconda volta che torna in lavanderia con un capo di abbigliamento che non riesce a lasciare andare.
La prima volta è stato l’abito bianco e blu, quello con il laccetto sul seno e senza maniche: lo aveva comprato nel suo negozio preferito in via Amendola a Torino, l’estate in cui aveva comprato casa nuova, quella in cui stava consumando le ballerine grigie prese su Yoox che si imbarcavano camminata dopo camminata, casa dopo casa.
Era il vestito che si meritava, si era detta: era fresco, l’avrebbe indossato per andare a ballare sulla spiaggia, sotto le lucine dei marinai, lo avrebbe tolto prima di entrare nell’acqua notturna. Sarebbe stato un abito leggero per un fine settimana, adatto per una riunione, comodo per gli amici, immediato da tirare via.
Si macchiò di sangue: non aveva capito quando, l’ipotesi era un ciclo indomito, o un assorbente tenuto troppo a lungo durante un lungo confronto con dei clienti.
Il caldo, la distrazione, chi lo sa.
Lo portò nella lavanderia sotto casa, pensando di ritirarlo martedì per andare al concerto alla Reggia di Veneria quella sera. Ma la macchia non era venuta via: forse era troppo che era lì, forse lo aveva lavato a caldo, la distrazione, chi lo sa.
– Scuciamo la tasca e la ricuciamo sopra
– Lo trattiamo un nuovo prodotto, certo, rischia di aggredirlo troppo
– È un materiale delicato, proviamo a smacchiarlo e incrociamo le dita.
Salvatelo, si sentì dire. Salvatelo.
Questo abito da cento euro, questo vestito di un’estate, e nemmeno felice.
Salvatelo, perché quando l’ho comprato stavo rinascendo, perché nel camerino pensavo che chi lo avrebbe levato non aveva ancora un volto, e non avevo paura. Era il vestito che avevo comprato quando volevo re-innamorarmi, non gettate via quel momento.
“Mi è molto caro”, gli disse.
Loro capirono, lo smacchiatore funzionò, e mise quell’abito molte volte.
Stamattina è una gonna, grigia.
È un po’ più lunga dietro, da usare in inverno e in estate: ha una sottoveste totalmente scucita da un lato, ma anche l’elastico in vita è del tutto liso. Le propongono di sostituire l’elastico, e si rifiuta.
Sono le 11 del mattino, e lei ha paura: è in una lavanderia nel centro di Torino, che si appoggia a una sarta famosa e consigliata da tutte le amiche, e vorrebbe solo riprendersi quella vecchia gonna e riportarla a casa. Piuttosto che rovinarla mettendola nelle mani di qualcuno che può fare danni, la tengo così – pensa.
Qualcuno che non la conosce.
Qualcuno, una sarta, che ripara una stoffa guardando solo la stoffa, senza conoscerne la vita.
Lo sa che l’elastico è liso perché ingrasso quando mi dimentico di poter essere infelice?
Non l’ho comprata io, me l’aveva regalata una persona che mi dava i pizzichi sulle guance e che urlava di gioia quando mi vedeva. Sarebbe stata una gonna professionale, poi è diventata una gonna vezzosa. L’ho sempre attaccata a una gruccia ogni volta che l’ho riposta, perché temevo che i gatti potessero entrare nell’armadio e rovinarla. L’amavo con gli stivali lucidi neri e la borsa di vernice, diventavo resistente allo smog e ai clacson.
L’uomo della lavanderia chiede consiglio alla sua collega, le propongono un elastico grigio: non sarà dello stesso materiale perché “quel materiale ce l’hanno solo nella fabbrica dove hanno fatto la gonna”, ma possono mettere un elastico grigio che la farà durare di più. Così la salveranno, la rassicurano.
Lei si ritrova a dire che ha l’ansia da madre, un’espressione così inappropriata, sarà il caldo, la distrazione, chi lo sa. Esce da lì, senza vergognarsi neanche un po’, senza il sentore che ha perso un etto di lucidità negli ultimi dieci minuti.
Ancora non sa di aver perso la battaglia contro il potere emotivo dell’armadio.
La settimana precedente ha regalato un paio di scarpe, lei si libera delle cose senza pensarci, quella mattina voleva gettare le piante.
Quel pomeriggio torna a casa.
Ha avuto un incontro che non le ha portato quello che desiderava, ha comprato un vassoio di dolci, ha pianto sotto il sole, si è messa d’accordo per una festa, ha passato un’ora a disegnare opzioni e gatti, ha pensato al sesso, ha bevuto un caffè freddo troppo zuccherato.
Si spoglia, mette via il reggiseno nel cassetto dei reggiseni: vede quello nero che le sta largo, lo getta per terra, indossa qualcosa di comodo. Lo raccoglie, apre la pattumiera, lo getta dentro. Raccoglie la carta, getta anche quella nella busta della carta. Decide di svuotare i sacchi della differenziata, afferra quello della plastica, le si rompe il manico in mano. Indossa le scarpe, va al negozio di ferramenta a un isolato, acquista un set di tre contenitori per la differenziata: carta, plastica, vetro, stesso modello di quello che ha a casa ora ma colori diversi.
Ripensa a quando abitava a Bologna e per un anno ha vissuto senza telecomando per la televisione perché lo aveva perso: si alzava per cambiare canale, o per abbassare il volume. Le piaceva la pubblicità, non cercava motivi per sollevarsi dal divano.
Quanto è profonda la tana che mi sto scavando? Ci sarà posto per tutti i simulacri della pazienza e dell’attesa, del riparo e dei daccapo? Quanto durerà questa condizione di stare sotto una lastra di ghiaccio con gli occhi aperti?
Domani regalerà la pianta che sta peggio, cambierà le lenzuola, andrà alla festa. Si esporrà un po’, per spaccare il ghiaccio. Si vestirà con un abito per cominciare una storia che la porterà in lavanderia tra tre anni, speriamo che cominci bene.
Lo sa che l’elastico è liso perché ingrasso quando mi dimentico di poter essere infelice?
Il concentrato della mia vita in un post sugli abiti che avevo pensato di non leggere e che, invece, ho fatto bene a leggere, come sempre
Mi ha ricordato i pensierini che il mio maestro delle elementari (io ho pianto perché volevo la maestra e non il maestro, gender bias all’opposto) ci faceva fare ogni giorno per 4 anni: quaderni di minuzie per farci capire che non serve essere testimoni di sconvolgimenti per imparare a riflettere e a scrivere.
Non l’ho ringraziato mai abbastanza.
Per ora ringrazio te