I rischi per la salute mentale degli influencer

(Il fatto che stia scrivendo questo post di domenica perché sistemando l’agenda della settimana ho visto che martedì, da calendario editoriale, avrei dovuto pubblicare un post, ecco: facciamo che è il commento al titolo di questo post.
Ma proviamo a fare un attacco più grintoso.)

Se vi dicessero che uno dei lavori più ambiti è anche quello che metterebbe a rischio la vostra salute mentale, vorreste ancora farlo?
Se vi riempissero di regali, privilegi, facilitazioni e vi chiedessero un pezzo del vostro equilibrio, sareste disposti a fare questo scambio?

Di cosa parliamo: qualche giorno fa ho ricevuto la newsletter zio di Vincenzo Marino, content manager di Red Bull Italia e noto online come Wyncenzo. Leggo Zio per conoscere tendenze, spunti e dinamiche di un mondo che non conosco, quello dei teenager: insieme a questo, Zio mi offre uno sguardo su testate, articoli e canali che nessuno della mia bolla intercetta.

Nell’ultimo numero di Zio, Vincenzo parla delle maratone su Twitch e del crollo emotivo di Gskianto, uno tra gli streamer più famosi del canale.
Una maratona è questa roba qui.

Una cosa che anche l’occhio meno clinico giudicherebbe come minimo poco sana.

Ma andiamo avanti: Vincenzo racconta come Gskianto si è tirato fuori da questa maratona, parla di alcuni momenti difficili che ha vissuto. Dopo, menziona un link che parla dei guadagni degli streamer e dice di non essere d’accordo sul ragionamento di un altro streamer sui soldi: “del genere: piangi ok ma intanto ci hai guadagnato xmila euro”. E aggiunge:

Non sono d’accordo, dicevo, perché il rapporto tra l’essere content creator e andare in burnout è un tema, e prescinde dal denaro. Perché la salute mentale, banalmente, è un tema. Il tema, in questo caso.

Ed eccoci arrivati quindi al tema di questo post: è il momento di parlare di salute mentale dei creator e influencer oppure possiamo continuare a ignorare la cosa?

Social network, creator e salute mentale

Esistono diversi articoli che parlano della correlazione tra social network e salute mentale, e di come questi abbiano un impatto stratosferico sulla nostra vita: non solo cosa ci mostrano, ma quanto e come li usiamo, in quale maniera – attiva o passiva.
Il tempo che ci spendiamo, le aspettative nel piacere e nel ricevere dei like, il paragone con le vite altrui, la corsa a essere seguiti, i desideri che non sapevamo di avere.

Se spostiamo questo sul discorso content creator e influencer, i puntini sulla mappa della salute mentale che rischiano di diventare allarme rosso si moltiplicano:

  • La necessità di avere più follower, perché al numero di follower cresce la tua visibilità e le possibilità di collaborazione con i brand.
  • Il tempo trascorso sui social network che aumenta a dismisura, per produrre, interagire, rispondere e mantenere la community.
  • La corsa a produrre contenuti che assecondino le tendenze dei social (video, canzoni, meme) per guadagnarsi una visibilità maggiore, anche a rischio appiattimento.
  • Il paragone tra le creme che hai in casa e le creme che ricevono le influencer con numeri maggiori dei tuoi.
  • La sensazione di doverci essere sempre, di dover produrre contenuti spesso e di non potersi allontanare mai.

Non è un equilibrio facile, e a volte può essere parecchio stressante: anche se da fuori le persone vedono un flusso costante di omaggi, retribuzioni per prodotti che a stento potrebbero acquistare, viaggi su mezzi da sogno, ecco: non è sempre un sogno.

Le criticità emotive di cui si parla poco

Io ho 41 anni, e lavoro da influencer da diversi anni ma solo negli ultimi due in maniera più importante: è stato qualcosa che ho voluto per bilanciare il mio lavoro da consulente, per fare un lavoro più creativo e, a parità di ore di lavoro in altri ambiti, pagato meglio.

Conosco quindi quello che è il mio ambito e quello di altre influencer che seguo: tra i 30 e i 50 anni, che parlano di libri, moda, food, beauty. Lo fanno su Instagram, che è il solo social che abito con frequenza, e hanno tra i 30.000 e i 100.000 follower.
E più o meno sbroccano tutte e tutti, senza nessuna differenza.

Ci sono alcuni punti critici per la salute mentale di chi lavora come content creator / influencer di cui vorrei parlare, perché a occhio sono quelli che vedo spuntare più spesso: credo che alcuni di noi ne siano molto consapevoli, il che non evita lo stress e il ricascarci ogni tanto.
Ma vorrei parlarne per raccontarlo a chi non fa questo lavoro o a chi vorrebbe farlo e conoscere a cosa sta andando incontro.

1. Il peso di sentirsi utili

Quando scegli di diventare un creator, scegli di mostrare porzioni di vita personale non esattamente risicate: la tua casa, molto spesso il tuo bagno, alcune delle tue relazioni, i ristoranti dove mangi, gli alberghi in cui dormi.
Le cose che fai, le cose che hai.

Quello che mostri diventa contenuto: consigli su dove dormire, su quali creme usare, su dove passare il tuo tempo. La condivisione è generosità, a volte può diventare sacrificio: senza una rilavorazione, una struttura, un approfondimento, alcune condivisioni rimangono non fruibili.
Evocative, certo, ma inutili.

E dio sa quanto ci piace essere utili, anche a discapito del modo in cui viviamo certe esperienze: molti diventano creator perché condividono entusiasmo nel fare ricerche, paragoni, perché sono appassionati di ingredienti e prodotti come pochi altri, perché capaci di divulgare quello che sanno con semplicità e senza spocchia.

Ma: a volte si può voler fare un viaggio senza il bisogno di scriverci un post. Si può voler staccare dal binomio esperienza / recensione, e stare dove si è. Senza mostrarlo, senza farci un video, senza cercare il geotag.

2. Essere all’altezza della propria narrativa

Cosa leggi? Sei femminista? Compri fast fashion o vintage? Sei vegano? Non è un questionario, ma di sicuro le persone che ti seguono saprebbero quali caselle riempire: è quello che mostri, che incontra le conferme o meno in quello che credono.

Ogni tanto sarebbe bello rispondere “Ma io sono Mariachiara, mica sono un’ideologia, o un partito”. In fondo siamo tutte persone che a un certo punto della loro vita hanno sofferto di flatulenze, bestemmiato, e hanno chiamato “mongoloide” qualcuno in passato: siamo un retaggio di influenze culturali e personali che cambiano, e per fortuna, aggiungo.

Ma oggi siamo fatti in modo diverso, ed è il modo in cui indirizziamo quello che raccontiamo: le idee che abbiamo sul mondo sono i tasselli con cui ci incaselliamo in certi settori, in certe posizioni.
Poi però cambiamo, cadiamo, facciamo un passo indietro o avanti. E questi passaggi sono una complessità che non è sempre scontata da capire per chi ci segue: la tridimensionalità è percepibile col tempo, con gli scambi, e non tutte le community sono fatte di persone che hanno tempo, e capacità di interagire.

Per cui ci si ritrova a essere visti come un curioso monoblocco con narici e sfintere, dove il cambiamento, le cadute, le idee distratte sono additate come “qualcosa che non è da te”.
Giulia Torelli nella bio ha scritto “Potrei contraddirmi”. Ecco: possiamo farlo tutti.

3. Dire la cosa giusta, o non dirla

Qualche tempo fa mi ha contattato un brand che si occupava di creme per pazienti oncologici, per una possibile collaborazione (spoiler: non se n’è fatto più nulla perché voleva pagarmi in creme. Per pazienti oncologici. Sto bene, grazie).
Nella mia risposta c’era la richiesta di coinvolgere la mia dermatologa per una valutazione sul prodotto, per parlarne con una competenza che non ho.

Il mio scrupolo professionale ed etico nasce da una certa attitudine a non dire cazzate, ma anche dal rischio di fornire un parere poco informato su una condizione fragile e quindi di essere suscettibile di critiche.
Da influencer, siamo chiamati a prendere posizione: a volte a casaccio e su qualsiasi cosa, ma giuro, non abbiamo un’opinione su tutto. Se anche abbiamo un’opinione, e cavalcare il fomento nell’esprimerla può portarci un picco nella visibilità, molti di noi si ritraggono: esprimere opinioni significa generare scambi. Positivi e meno positivi. Gestire queste conversazioni è un’attività che ti consuma.
Possiamo informarci, certo, ma possiamo sbagliare: se il rischio è la shitstorm, a volte preferiamo tacere.

4. L’ansia di scomparire

Concludo con l’ansia di scomparire, che è più comune quanto si presiede un unico canale. E quindi esserci, anche quando si ha poca voglia. Cito un pezzo di un articolo del The New York Times a proposito di burn out e content creator, scoperto sempre grazie a Vincenzo Marino.

I feel like I can become washed up any second by an algorithm

Esiste una soluzione al problema?

Come risolvere il problema dell’ansia e dello stress da content creator? Cominciando a vederlo, per quel che mi riguarda.
Staccando, a volte. Gestendo una trasparenza mirata con la propria community, parlando con loro dello stress, e di alcune scelte come quella di non condividere certi aspetti.

Andare in terapia lo metto tra i gesti necessari per la salute mentale tout court, e comprendere quale sia la reale portata emotiva di una community estesa lo inserisco tra le riflessioni da portare in terapia.
Se volete, continuiamo a parlarne.

[Photo by David Boca on Unsplash]

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