Il potere delle polemiche su La Molisana

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È giovedì sera, e in teoria ho programmato per domani un post sul blog che racconta cosa sto facendo.
Ma: ho appena finito di ascoltare questa puntata di Problemi Deli di Jonathan Zenti, che mi ha aiutato a mettere a fuoco alcuni pensieri confusi sulla vicenda della Molisana, e su a cosa e a chi serve discutere sui social. 
Per cui metto via il post programmato, e scrivo questo.
Ma: andiamo con ordine.

Cosa è successo con la pasta Molisana

In breve: leggendo le schede prodotto di alcuni formati di pasta de La Molisana, sono emerse delle schede con dei messaggi goffi che riguardavano la celebrazione del colonialismo. Vi lascio lo screenshot fatto da Niccolò Vecchia.

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Di fronte a questo testo che celebra il fascismo – letteralmente: le intenzioni potevano essere altre, possiamo parlare di sbadataggine, ma il messaggio era questo -, sono partite alcuni articoli e polemiche sui social: riguardavano il messaggio in sé, e anche l’opportunità di queste polemiche.
Per farvi un’idea, vi lascio quindi gli articoli di Massimiliano Tonelli sul Gambero Rosso, di Eleonora Cozzella su Repubblica e un articolo di Munchies sui nomi razzisti dell’industria alimentare (quest’ultimo di qualche mese fa, ma che si è rivelato molto pertinente in questa vicenda).

La questione delle etichette

Nell’episodio “Deserving Migrant” del podcast Problemi Deli, Zenti parla di un’altra vicenda di cronaca, e dei contenuti e dei commenti che sono nati intorno a questa vicenda: svela un meccanismo relativo all’informazione che di sicuro riconoscete anche voi.

Qualcosa succede, e qualcuno prende le parti: arriva poi la ricostruzione della vicenda, e via via delle sciabolate di opinioni sempre più sferzanti. Accade spesso che per esprimere queste argomentazioni si usino delle etichette, in questo caso il “deserving migrant” del titolo: servono per smontare una narrazione, offrendo una narrazione opposta.

Non è così perché è così, e bon: segue etichetta. Il femminismo è pieno di etichette, il corpo è pieno di etichette, le case sono piene di etichette, i cibi sono pieni di etichette, la bellezza è fatta di etichette: se quelle etichette non le conosci, vivi una vita dove è più difficile comunicare a quale cerchia appartieni.

Zenti, nel suo episodio, lo racconta così:

La gabbia che circonda il nostro tipo di dialogo intorno a certi temi è quello dell’etichetta: ogni volta che noi dobbiamo affrontare una cosa che succede cominciamo a etichettare tutto quello che vediamo. Negli ultimi anni questo processo è diventato quasi fuori controllo.

Le etichette sono filtri, lenti, semplificazioni che in alcuni casi ci impediscono di entrare nel vivo dei fatti, nella complessità delle cose.

Perché non ho urlato “fascisti”

Quando sono nate e poi si sono diffuse le polemiche sulla pasta Molisana ero con la testa altrove: ho letto qualcosa, poi sono tornata a farmi i fatti miei.

Nei giorni successivi ho visto chiunque dire la sua, e ho pensato se fosse il caso di dire la mia: tutto ok, se non che una mia opinione non ce l’avevo. Ho passato del tempo leggendo diversi articoli per capire, e continuavo a non averla.

Ho pensato che fosse giusto per alcune persone indignarsi, e per altre contestualizzare con elementi di propria conoscenza. Ho provato un lunghissimo fastidio seguendo la scia dei tanti che hanno dato dei goffi fascisti alla Molisana, e badate: non perché fosse impossibile pensarlo, ma perché mi sono chiesta come fosse realistico apporre delle etichette in un tempo così rapido e con così tanta tracotanza.

E quindi no: non ho urlato “fascisti”.

La lotta piaciona

Da sempre l’uomo fa due tipi di lotte: quelle per ottenere qualcosa che gli serve, e quelle per attestare il proprio potere su qualcosa che desidera, che può essere un oggetto, un luogo, o un titolo.

Molte delle lotte e delle argomentazioni che avvengono online, e che prima avvenivano in piazza, e che ancora prima avvenivano via lettere, servono a comunicare agli altri il potere che abbiamo, e che è sempre un mix di fonti: il potere che altri ci conferiscono, e il potere che ci attribuiamo per convinzione, classe sociale, status.

Se oggi dovessi individuare uno dei poteri più diffusi e insieme desiderabili del mondo, di sicuro penserei al potere di influenzare: nelle nostre lotte e argomentazioni rispetto al mondo, conquistiamo una voce che viene ascoltata. A nostra volta, usiamo quella voce per ampliare il nostro spazio di manovra, e in più quella voce, in alcuni casi, possiamo anche monetizzarla. Bingo.

Tornando all’episodio della Molisana e al perché non ho urlato “fascisti”, non l’ho fatto perché non ero sicura di quale fosse la mia opinione, e insieme per un altro motivo che l’episodio di Zenti mi ha aiutato a mettere a fuoco: utilizzare e appiccicare etichette serve per definire e dare potere a noi stessi, prima ancora che raccontare qualcosa sul mondo che gira.

Le etichette, e le opinioni, servono a dire cosa abbiamo studiato, a renderci riconoscibili agli occhi di alcune cerchie, a elevarci come divulgatori: dire quello che pensiamo può essere lo strumento per conquistare una fetta di potere, che è quello di influenzare.

Se devo pensare al fastidio che ho provato vedendo questa ansia di esserci, e parlarne, e dire “fascisti”, o dire “stupidi”, o etichettare le relazioni tra i fascisti e gli stupidi, ecco: ora so decifrarlo. Non è solo che non avevo una chiara opinione, ma è che non mi importava nulla di diventare più potente: stare in silenzio vuol dire non perdere voti, e non acquistarne di nuovi.

Compiti da influencer

E quindi, cosa farò adesso? Ma nulla, figuriamoci: continuerò a dire la mia in molte faccende di cui non colgo la complessità, e mi immergerò in un numero sempre maggiore di etichette quanto più mi addentro nelle cerchie degli esperti degli argomenti che mi appassionano.

Però, dai, proverò a chiedermi più spesso perché parlo di qualcosa, ogni volta che ne parlo: se lo faccio perché mi interessa, perché ci tengo, perché conta per me o se è per conquistare popolarità. Non è detto che se la risposta giusta è l’ultima io mi levi dalla mischia, ma promesso: farò una giravolta di penitenza per ogni etichetta usata con calcolo e con uno scopo poco nobile.

E ora, su, torniamo a litigare.

[Photo by Annie Spratt on Unsplash]

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