Sono stata per la prima volta al Vinitaly, il salone del vino più famoso d’Italia, grazie all’ospitalità della Casa Vinicola Zonin, che la sera prima ha voluto accogliere nella sua tenuta di Gambellara una trentina tra professionisti di cibo e vino per parlare di come riportare il vino sulle tavole degli italiani: l’incontro si è chiamato #winetomany, è stato entusiasmante e ve ne parlerò con un post a parte.
Qui è dove vi vorrei lasciare le mie impressioni sul Vinitaly, raccontando critiche e spunti che chi organizza la fiera, chi partecipa e chi fa comunicazione del vino sarà più bravo a sistematizzare di me: sono convinta che qualcosa vada fatto, per promuovere iniziative che come #winetomany fungano da collettore positivo di opinioni e mettano insieme voci diverse e contrastanti.
Iniziative che supportino il Vinitaly a sfumare l’impressione che ho avuto io: un insieme di fortini dalle gerarchie monarchiche, una distribuzione scomposta di ideologie e settori (qui quelli biologici, lì quelli indipendenti, lì si mangia anzi no), e una logistica che per l’appassionato finale è sconfortante.
Cominciamo dall’organizzazione, e dalla fila del Vinitaly: una coda lunghissima e magmatica che ti accoglie nel piazzale antistante l’ingresso. Nessun cordone, porticine strettissime che fanno da imbuto, un’ora di attesa per entrare: credo che anche San Siro e San Pietro siano più efficienti, forse vale la pena chiedere una consulenza (non a qualche Santo, intendo). Davvero è un problema irrisolvibile? Credete che sia un sacrificio che possa passare in secondo piano? Non conoscete nessuno che possa aiutarvi? Chiedete, magari su twitter (decidendovi anche su quale account usare).
Al Vinitaly si beve, ma non si parla, e non si ascolta: al singolo stand, a meno che il produttore non sia preso d’assalto, si può conversare sul vino amabilmente. Ma poi? Mi ha sinceramente stupito che una fiera di questa portata non preveda un calendario di incontri e dibattiti ma solo di degustazioni: per conoscere il vino abbiamo bisogno di berlo? Certo, ma la conoscenza non può limitarsi all’assaggio. Perché non prevedere scambi tra produttori, talk sui nuovi modi di produrre e di vendere il vino? Dibattiti pubblici, che inglobino chi il vino lo fa, chi lo vende, chi lo comunica, chi lo beve: così come ha fatto Zonin con il #winetomany, è impossibile pensare che una fiera possa promuovere questi incontri? Che i produttori si mettano insieme e avanzino loro un calendario di iniziative?
Si può prendere esempio da Taste a Firenze, dove sul palco sono stati chiamati a parlare di pasta una decina di produttori intorno ai temi del grano made in Italy.
Mangiare, e perché? Qualcuno deve averla presa come domanda retorica, visto che tra gli stand del Vinitaly il cibo non esiste: arrivati al decimo assaggio di vino il corpo umano richiede di ingerire qualcosa di solido – credo che Piero Angela sarebbe d’accordo. Ma, sorpresa, non è possibile: non c’è pane, non ci sono grissini, non c’è nulla. Alcuni stand sono organizzati ai piani alti con pane e olio, ma è poca roba. Per pranzare occorre dirigersi ai punti ristorazione dislocati ai lati dei padiglioni, dove bisogna essere fortunati e arrivare nel momento in cui il rifornimento di panini e piade è stato appena scaricato e i banchi sono di nuovo pieni. Altrimenti, tocca aspettare. La qualità è una via di mezzo tra Lidl e Gigi il Lurido, con meno scelta. La leggenda narra di un Eataly dislocato al padiglione 8, ma costringere ad attraversare i padiglioni col miraggio di una piadina non rientra nei buoni canoni del servizio al cliente.
Se non mangi, e se sei un ragazzino di 18 anni, cadi stecchito dopo mezza giornata: lo spettacolo umano del Vinitaly è uno scempio, un panorama alla Gilliam di facce distorte dall’alcol, di andature barcollanti, di persone dormienti e di ragazzine che si fanno scattare una foto al loro fianco, sorridenti. Anche gli adulti sono ubriachi, e in genere la dignità umana è fatta a brandelli da una quantità di vino superiore al numero dei neuroni. Mentre scansavo i cadaveri, pensavo: ma di cosa parliamo quando parliamo di cultura del vino se il messaggio negativo che è qui davanti a me associa il vino all’alcol e basta? Se le persone pagano un biglietto non per scoprire ma per ubriacarsi? Si può fare una corretta informazione? Può uno stand continuare a servire vino a una persona evidentemente ubriaca?
Altre quattro cose in ordine sparso:
1. La linea telefonica e il 3G, where are thou? Anche qui: davvero è un problema che non si può risolvere?
2. Le mappe: le mappe dei padiglioni sono disposte all’interno, e fuori ci sono pochissimi cartelli. La prima cosa di cui l’uomo ha bisogno per visitare un posto è una strada per arrivarci e un orientamento da seguire. Anche qui, chiamate il famoso esperto di logistica di cui sopra.
3. Le modalità di assegnazione dell’accredito, che se sei contributor freelance (blogger, giornalista non iscritto all’Odine, collaboratore esterno) ti viene dato se garantisci che ne scriverai. Credo che questo sia un punto molto delicato, perché tra mille considerazioni ce n’è una che è fondamentale: se sei esterno, puoi proporre il pezzo alle testate con cui collabori ma non è detto che lo pubblichino. Un ufficio stampa questo lo sa, e non può assumerlo come criterio per dare un accredito.
4. Vivit, che dove per il mio gusto ho bevuto vini eccellenti: ma deve per forza stare in un recinto senza indicazioni di nessun tipo?
Vinitaly, per come la vedo io, ha bisogno di ripartire da zero, di portare contenuti nella fiera e di adeguarsi e stimolare un settore che ha bisogno di trovarsi, di comunicare, di approfondire, di stimolarsi e di aprirsi: oltre alla chiacchiera, c’è bisogno di una logistica diversa, migliore, efficiente, perché altrimenti tutte le parole saranno vane.