Tre punti per App.etite

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Sono tornata da Bologna, dal giorno e mezzo di App.etite, il convegno voluto da Stefano Bonilli per ragionare insieme di comunicazione gastronomica: mi chiedo che senso ha scrivere di conclusioni argomentando su un convegno che è stato visto e partecipato da 100 persone, dando quindi delle risposte a delle domande che i lettori di questo post non hanno visto fare.

Alcune cose non saranno comprensibili, ma vorrei provare a scriverne per lo stesso motivo per cui ho twittato durante il convegno: perché bisogna vedersi e farsi vedere dall’esterno per crescere e cambiare. E questo anche se il cambiamento ci è ostile, anche se stare in pochi è più facile e comodo, anche se crediamo di essere già bravi così.

Questo post è per chi era lì e per chi avrebbe voluto esserci, per chi non c’era e per chi non crede che il cibo sia cultura.

In breve: durante la due giorni si è parlato di editoria, modelli cross-mediali, tv, ragionando su quelli che potessero essere nuovi modelli editoriali interessanti e sostenibili, sui contenuti e formati per rendere fruibili contenuti complessi, sulla narrazione di prodotti e produttori (intesa come argomenti, ma anche realizzazione di siti attuali), sul ruolo del giornalista e della tv.

App.etite è stato organizzato da Bologna Business School e Gazzetta Gastronomica: sponsor dell’evento Ferrarelle, Pastificio dei Campi, Trinci, il Forno di Calzolari, Fabbri, Brùton, O’ fiore mio, Salumificio Villani.

Tantissimi argomenti, che si spera verranno condivisi il più possibile. Qui di seguito i punti per me più importanti.

Primo punto: le competenze sono sopravvalutate (o sottovalutate)

È stato un incessante ripetere “bisogna acquisire competenze, occorre essere più bravi” (bisogna diventare come noi, sembrava di sentire sottofondo) ma non basta: non è la persona che più sa di cibo la più brava a comunicarlo. Se volessimo fare un paragone in altri settori, davvero ci aspetteremmo che a saperne di marketing del turismo fosse l’albergatore? Che l’autore del romanzo sia lo stesso che sappia come distribuirlo? Certo che no: a ognuno le sue competenze.

Non funziona così per il mondo della gastronomia dove i dieci giornalisti e cuochi che sanno usare congiuntivo, fotocamera e microfono sono anche quelli che credono di essere i più autorevoli nel comunicare la gastronomia.

Sbagliato (IMHO): tra le cinquanta persone che credono che Marchesi sia una marca di biscotti e le due che conoscono tutta la geografia della ristorazione italiana, in mezzo c’è un’ampia fetta di professionisti e appassionati che comunicano il cibo a modo loro – intrattenendo, filmando, scrivendo per sponsor. Loro non sono il male, e forse dovremmo imparare a capire un po’ di più chi sono queste persone e collaborare costruttivamente con loro invece di ergerci a paladini della difesa del forziere gastronomico “perché noi facciamo cultura”.

Spesso a far passare dall’altra parte in termini di attribuzione (cioè: squalifica) valoriale sono i soldi: scrivere per la pubblicità, fare programmi che rendano felici gli inserzionisti, sono cose che rendono la persona che lavora in questo ambito qualcuno che “non sta facendo vera cultura”. Sono affermazioni strane, perché tutti quelli che erano seduti lì vengono pagati (o si spera) per il loro lavoro da un committente: un editore è più puro di un’azienda? La pubblicità non è comunicazione? Non c’è proprio nulla da imparare dall’altro? Qui il problema non è Vizzari che afferma che non si può prescindere dalle competenze, ma di chi prende Vizzari come affidabile nell’ambito della comunicazione gastronomica.

Punto due. Il mondo food deve imparare a farsi permeare da settori diversi e riconoscere la competenze in quei settori per costruire insieme un percorso di eccellenza.

Durante la due giorni ci sono stati degli interventi da persone che non erano giornalisti, o editori: docenti, autori di programmi televisivi, direttori di testate non food, pr. Alcuni pertinenti, altri sinceramente imbarazzanti come quello di Giuseppe Granieri che ha proposto uno speech di un contenuto davvero elementare. Le reazioni sono state varie: c’è chi ha ascoltato, chi ha insultato, chi si è sentito attaccato, o sminuito. Quello che per me è saltato all’occhio è stata la discontinuità di livello dei diversi speech, segno – per me – che chi è del settore food vive nell’ignoranza di stimoli diversi da quelli del suo orto.

Sono anni che seguo, per passione e per lavoro, conferenze, corsi e incontri sui social media, sul turismo, sul marketing: da un convegno sugli “stati generali della comunicazione gastronomica” mi aspetto interventi con un livello di approfondimento più alto, e uno scambio di competenze settoriali ed extrasettoriali molto più vivace.

Quando Massimo Russo, direttore di Wired, ha esordito dicendo: non si può non aprirsi al digitale, coltivare le community, ho visto concretizzarsi, nel riverbero di certe affermazioni sentite ad App.etite, una solida arretratezza e ritrosia alla volontà stessa di comunicare.

Per molti pronunciare culatello e community insieme sembra a tratti una bestemmia, perché la vulgata alla massa sembra premettere un’azione di squalifica della qualità di un certo sapere: si crede che solo facendo divulgazione come si è sempre fatta quel sapere riuscirà a essere trasmesso. Rimane da chiedersi se il timore sia relativo alla perdita di quel sapere o del proprio ruolo.

Dall’altra parte ci sono competenze strettamente settoriali che non vengono riconosciute, come quando la tv chiede ai giornalisti food i nomi di chef da ingaggiare per i loro programmi: è una relazione che va ufficializzata, e si sta iniziando solo adesso.

Terzo punto: fate le slides, presentatevi e predisponetevi a comunicare.

Molti hanno presentato interventi scritti e li hanno letti, ed è stata subito omelia (Pignataro, Bolasco – peccato perché poi Bolasco lontano dal panel si è dimostrato tra gli speaker più vivaci e audaci).
C’è stato Petrini che ha parlato della sua insonnia per dieci minuti per poi continuare il suo intervento con un tono e degli argomenti che risultano incomprensibili a chi non ha già una certa dimestichezza col suo eloquio delirante.

Ci sono stati Antonio Tombolini, Gabriele Zanatta, Ryan King e Cathy Hughe che ognuno col suo tono hanno esposto in maniera più o meno ordinata spunti, informazioni pratiche, esempi con speech da usare e gli ultimi due con slides comprensibili.

La mia posizione è semplice: se sei sul palco, sei lì per trasmettere qualcosa. Che vuol dire adottare un linguaggio che gli altri comprendano. Parlare non per impliciti ma con obiettivi. Essere pertinenti e puntuali.

Questo significa anche presentarsi e presentare: ogni volta che qualcuno pronuncia un “xxx non lo presento perché lo conoscete tutti” un non addetto ai lavori muore. O un addetto intelligente si ribella, fate voi.
A questo convegno sono stati invitati anche studenti appassionati: ci sono stati, hanno seguito tutto? Mi piacerebbe in futuro che tutti, entrando in quest’aula, capissero chi sta parlando di cosa, senza necessariamente dover “conoscere”. Possiamo farcela? Lo sapremo alla prossima edizione di App.etite, con un auspicabile streaming.

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