L’ossessione del lavoro

Vorrei scrivere un post sul lavoro per dire quanto è stupido parlare sempre di lavoro

Se voi ci vedete delle contraddizioni, che dire: avete ragione.
Dovrei tacere: parlare di calzini e cataloghi di mostre, ad esempio.
Potrei girare per vivai e mostrare solo peonie e curcuma, dal seme alla pianta.
Potrei curare le mie ansie coltivando un orto urbano, andando a camminare, ma piove, quindi questa settimana parliamo di lavoro.
O meglio: questo post parla del perché io e migliaia di altre persone siamo ossessionate dal lavoro, e quanto questo sia spesso sintomo di altro. Se vogliamo vederlo.

Le basi, al centro

Ho 41 anni, e i miei genitori sono diventati medico di famiglia e professoressa di inglese per le scuole medie: mio nonno paterno faceva il contadino, mia nonna materna la casalinga. Le case dei miei genitori erano più grandi e piene di quelle dei miei nonni, anche per una questione generazionale: loro hanno scelto e avuto le possibilità di svolgere un lavoro non manuale, meno usurante, in un momento storico in cui un lavoro con uno stipendio medio gli ha concesso uno stile di vita agiato.

In famiglia abbiamo però avuto un po’ di alti e bassi, diciamo, e il risultato è stato un contesto economico di base sereno intervallato da momenti che lo erano di meno: alcune vendite, alcuni arresti, alcune accelerazioni.
Capirete se non entro nei dettagli, ma ecco: io sono cresciuta con una famiglia convinta che un buon lavoro avrebbe migliorato di certo la qualità della vita. Meglio se un lavoro dipendente, e ben pagato.
Sono anche cresciuta con un senso di allerta continuo: tutto può cambiare all’improvviso, e i soldi e l’autonomia fanno tutta la differenza del mondo. Sono cresciuta con una sensazione intima e nodosa del fatto che le cose sarebbero potute andare male e che in qualche modo avrei dovuto cavarmela da sola.

Ci tenevo a raccontare questa storia di partenza, per raccontare che le basi pongono delle differenze di scatto e distanza nel mondo del lavoro: quello che è stato è stato, ma quello che è stato serve a misurare il percorso che abbiamo fatto dal punto in cui siamo partiti, e non da altri.
Non misurandoci, ad esempio, con persone che hanno studiato in università private all’estero, o con lavoratori i cui genitori hanno comprato casa a Milano o Torino, o ancora con chi a 40 anni attinge a fondi di famiglia, o ancora: chi come me ha lavorato durante l’estate all’Università ma per pagarsi gli sfizi, contro le persone che hanno lavorato per permettersela.
Beati loro, beati noi, e certo: siamo stati bravi, e insieme abbiamo avuto mezzi diversi.

I soldi, al centro

Io sono ossessionata dai soldi, lo confesso. Ci penso sempre: quanti ne ho, se mi bastano, come posso guadagnarne di più: ho il terrore che le cose non funzionino, che non guadagnerò abbastanza per pagare tasse, o affitto. Ho paura di non riuscire a essere autonoma e autosufficiente, e sono qui per parlarne: quanti di voi hanno questa paura? Per quanti di voi è reale? Quanti di voi rischiano con investimenti, nonostante questa paura? O magari, e lo spero per voi, non sapete di cosa stia parlando.

Io prima ho parlato delle mie basi, di quelle che mi hanno reso una donna autonoma, esposta, e in posizione di difesa: la maggior parte delle persone che conosco, però, ha basi diverse e insieme preoccupazioni economiche simili. O meglio: dice di essere preoccupata dai soldi ma è preoccupata dal lavoro. E tornano le ossessioni: per quanto guadagniamo, per come e quanto lavoriamo.

Il lavoro, al centro

Col cuore: non pensavo che lavorare andasse a occupare una fetta così grande della mia vita. Ovvio: quando sei bimba e nutrita da altri, non puoi capirlo. Ma nemmeno immaginavo di sviluppare un senso di abnegazione così assoluto rispetto al lavoro: non pensavo che sarei arrivata a metterlo su un piedistallo così alto, e ora che lo vedo lì penso che si meriterebbe una posizione più umile.

Lavoro in proprio da 8 anni, quasi 7 in regime ordinario: 7 anni in cui quindi ho guadagnato cifre diverse, che negli ultimi anni si aggirano intorno ai 60.000 euro* all’anno. Qualche anno poco più, qualche anno poco meno. Mai tanto di più, mai tanto di meno. Quella cifra, poco o tanto a seconda di chi la guarda, significa aver fatto dei preventivi ragionati, aver trovato dei clienti piacevoli e puntuali nei pagamenti, aver fatto quadrare le spese, le uscite, le tasse. Io ho chiesto un paio di prestiti in anni difficili, ma sono qui.

Quella cifra, per me, è sempre stata la risposta alla domanda: quanto vali?
Sei abbastanza brava da guadagnare almeno 5.000 euro al mese? Sei abbastanza brava da venderti, promuoverti, fare i preventivi e portarteli a casa? Sei abbastanza brava da inventarti cose nuove, da formarti per renderti appetibile, da fare networking?
Se guardo i fatti, la risposta è sì: sono brava.
Se ci guardiamo negli occhi, o abbassiamo lo sguardo fino alla pancia, la risposta è un’altra: il lavoro non è l’unica cosa che definisce quanto valiamo. Eppure, io gli ho assegnato un valore economico. Ho dato al mio conto in banca un valore identitario, fatto di orgoglio, o di vergogna: e voi, anche voi lo avete fatto?

* Dichiarare questa cifra è il risultato di una gestazione lunga: dirlo o non dirlo? E: a parte la cultura per cui “non si parla di soldi”, perché non dirlo? E: dichiarare quanto si guadagna è entrare in una competizione? E, e, e.
Ho scelto di farlo per levare anche così un po’ di assolutismo: non esiste un punto di arrivo o di partenza, sono solo soldi.

La frivolezza, al centro

Qualche giorno fa parlavo con Tatiana, una collega freelance, che mi ha chiesto: come stai?
Le ho risposto.

Come sto? Non lo so.
Vorrei che il lavoro fosse meno ossessionante nella mia vita, e potermi godere altro.
Quindi: boh, vorrei stare più frivola invece di preoccuparmi e giudicarmi se le cose non vanno. Sono stufa.

Tirare fuori quelle parole è stato molto liberatorio, perché ho portato per la prima volta la mia preoccupazione per il lavoro, e per i soldi, a un livello diverso dal solito: non come conformità tra il sentire e l’esperienza e non come giudizio legato a condizioni identitarie. Ma: come attitudine mutevole, opinabile.
Qualcosa, quindi, su cui si può lavorare, e su cui si può discutere: è per questo che ho scelto di parlarne qui.

  • Per dire che il percorso per scrollarsi un po’ di pressione lavorativa dalle spalle comincia dal capire cosa significa per noi, a livello identitario, il lavoro.
  • Che porsi queste domande può voler dire considerare i nostri privilegi, e dargli il giusto peso.
  • Che l’ansia degli insuccessi è ansia dei giudizi.
  • Che i soldi sono autonomia, ma: autonomia da cosa?

Stiamo tutti parlando di lavoro, ci stiamo tutti confrontando con gli altri ma: veniamo tutt3 da contesti diversi. E allora: quali sono le sottotracce? Quali chiavi di lettura ci dicono qualcosa di vero, e che non siano le scarpe nuove, la sedia da ufficio, i post in cui diciamo che siamo stanch3, i non luoghi di incontro che si moltiplicano?
Insomma: ci sono sempre ragioni più profonde legate alla performance, allo scegliere un ruolo lavorativo, al saper delegare, alla capacità di risparmiare o meno. Parlarne, farci delle domande, esporre anche un po’ il fianco è il mio modo di alleggerire la pressione: e il vostro, qual è?

[Photo by Antoine Barrès on Unsplash]

 

Ci sono 2 commenti

  1. sì, sono ossessionata dai soldi… e più passa il tempo più, a volte, mi chiedo se sto diventando una Paperona de’ Paperoni, in quanto a tirchieria. .
    tuttavia…. 43 anni, casa di proprietà ( con mutuo, per carità, ma non soffoco) vizi e sfizi, qualche soldino guadagnato in banca. mai attinto a fondi di famiglia. lavoro (dipendente) da quando ne ho 19. sono fortunata.. perchè preoccuparmi….. perchè quando 6 anni fa è morto mio suocero ci siamo trovati con più di 100mila euro di debiti…. dalla sera alla mattina…. e allora per fortuna che qualche soldino da parte c’era, che un appartamento è stato venduto, comprandone uno più piccolo, che indagando bene qualche polizza per coprire, in parte, il buco è stata trovata.
    posso definirmi una oculata spendacciona? perchè vacanze sì, ma investendo un po’ di tempo in rete trovo quel che voglio al prezzo migliore…. a me va bene così

  2. Quanto vali? Quanto vale il tuo tempo? Che bell’articolo con strati e substrati di cose che sento e so sentiamo in molti/e. Lo leggo in un gionro in cui – per riposare un attimo la mente e clamare la furia dello stress lavorativo che si intreccia con le ansie da pandemia – ho preso un sick day per fermare tutto, leggere, essere, stare in silenzio. Perche’ a volte mi sembra che per non diventare una mediocre lavoratrice sto diventando un mediocre essere umano.

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