La verità, vi prego, sui contenuti (food)

Immagine da Pixabay: https://pixabay.com/it/ketchup-rosso-617231/

Un anno fa io e Francesca Gonzales eravamo a Bari per la Foodie Geek Dinner, il format che tutti ci chiedono: quando lo rifate? È un format in cui facevamo conoscere persone tra di loro, sostenuto da aziende che partecipavano perché riuscivamo a creare occasioni per vivere il prodotto e il brand in modalità divertenti, coinvolgenti.

Ieri sera a Milano blogger, giornalisti, marketing specialist si sono riuniti per parlare di fooblogging, intorno al concetto di #TavolaSpigolosa, e ho seguito qualcosa online.
Ho messo insieme le due cose in un viaggio in treno che mi riporta a Torino, e ho l’impressione che tutto questo abbia a che fare con due cose:

  1. La capacità di creare contenuti che le persone hanno voglia di leggere e condividere.
  2. La bravura nel creare dei contenuti editoriali che siano anche efficaci dal punto di vista commerciale (ed essere trasparenti nel farlo).

Mi rompe un po’ le palle che tutto questo sia ricondotto alla distinzione blogger / giornalista, perché ho l’impressione che in certi ambiti – vedi il food – queste due categorie siano distinte quando al giornalista fa comodo cercare un argomento per abbassare il livello della discussione, invece di guardarsi intorno e chiedersi: ma io ci campo col mio lavoro? I miei contenuti generano guadagno per la testata per cui scrivo? I redazionali che pubblico permettono di pagare lo stipendio dei miei collaboratori?

Mettiamoci d’accordo su un punto: la pubblicità va dichiarata. Allora sul post del foodblogger che utilizza quel prodotto e che viene pagato per farlo, ci metteremo il bollino sponsorizzato. Sui contenuti editoriali come il racconto delle «Donne del cibo» del Corriere della Sera, troveremo l’avvertimento che quei video sono creati in collaborazione con Marina Rinaldi.

Ok, ora passiamo oltre. Davvero, facciamolo.

Ci sono post di foodblogger che non sono belli da leggere, e non perché sono post pubblicitari: no, perché ci sono blogger che non sanno scrivere, che non sanno emozionare, che non sanno rielaborare contenuti. Questo capita dovunque, non è una malattia del sistema, è solo che ci sono persone capaci, altre no.
Invece, i giornalisti sanno tutti scrivere cose interessanti, già. Ti viene proprio la voglia di leggere quegli articoli online in cui lo stile manca, così come i grassetti, i daccapo, e le basilari regole della scrittura per il web.

Quindi di nuovo: smettiamo di ragionare su categorie, e mettiamoci tutti al servizio di una buona scrittura, imparando magari gli uni dagli altri.

La questione, mi sembra, e lo affermo da anni, è che ci sono settori dove è necessario sfondare la grettezza con l’evidenza che intorno a quel settore il mondo si sta muovendo secondo dinamiche che andrebbero almeno osservate, se non incluse. Nel mondo gastronomico i processi di produzione e assimilazione culturale scontano una miopia che in gran parte è dovuta al fatto che alcuni tra i cosiddetti opinion leaders storici sono bravi a mangiare, ogni tanto a scrivere, ma mancano di respiro culturale e digitale. E commerciale. Odiano le contaminazioni, si tengono stretti ai loro piatti, detestano farsi sfilare la tovaglia in nome di quel che non conoscono. C’è anche la questione etica che nel food è piuttosto vivace, e su questo avevo elaborato all’incirca gli stessi ragionamenti.

Ben vengano allora le logiche commerciali che portano novità, scuotono la cultura e portano i contenuti gastronomici online e fuori dal solo target food, e li rendono fruibili: vedi la guida di Identità Golose che è online e gratuita grazie agli sponsor, i post dei foodblogger etichettati sotto collaborazioni come questo di Sandra su Venezia, i video di Elisia per le ricette di Niko Romito per Garofalo, i redazionali scritti bene.

Sogno un mondo dove chi fa video food legga e conosca Fabrizio Ulisse, i foodblogger seguano un corso di Luisa Carrada, il giornalista che si trova online legga gli articoli di Tatiana Schirinzi. Un mondo food dove chi scrive abbia la consapevolezza dei contenuti che produce e del modo in cui sono prodotti, fruiti, veicolati, pagati.

Dove a una tavola rotonda sulle discussioni da foodblogger vengano invitati direttori d’agenzia, foodblogger, giornalisti ma non persone che indossano una maschera come l’ultimo degli eroi imbarazzanti che questo mondo non può permettersi di mandare fuori per farsi rappresentare. Dove se vogliamo parlare di differenze tra editoria e blogging, dovremmo partire – anche – dai mercati, dai percorsi, da una regolamentazione sui contenuti a prescindere dal mezzo. Perché sennò torniamo a parlare di carta vs online, di giornalisti vs blogger e perdiamo di vista un importante – tra i tanti – stimolo a proseguire la discussione: sai qual è il tuo lavoro, immagini come migliorarlo, riesci a camparci?

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