Questa mattina mi sono svegliata malissimo, come testimonia la mia foto su Instagram con una didascalia che urla Prozac, ora e subito!
Dopo l’incontro col commercialista, sono passata a trovare un amico, che ha un negozio in centro: lui si chiama Andrea, e mi ha raccontato un aneddoto che ha funzionato come antidepressivo (e penso funzionerà come tale anche per le prossime mattine in cui mi sveglierò infelice).
Andrea ha una figlia di tre anni e l’ha appena scritta in piscina, a fare quella che si chiama acquaticità: moto per bambini nell’acqua, che gli insegni a prendere contatto con una dimensione diversa dalla terra e che, ho scoperto, è qualcosa in più del ciaf ciaf. Molte delle attività sfruttano la dimensione ludica dello sport (sono bambini, no?), e tra queste quella di lanciare pupazzetti colorati nell’acqua e affidarsi al desiderio del bambino di accaparrarsene uno e giocarci: ecco che si tuffa, lo afferra e nello stesso tempo scopre che riesce a stare a galla.
Da quando sono freelance mi capita di temere di non farcela: prevedere il flusso di lavoro non è ancora facile, e per quanto stia andando davvero bene, bastano pochi giorni in cui il futuro non è pienamente definito per gettarmi nello sconforto. Lo dico apertamente, anche perché, immagino, capita a molti.
La libera professione vuol dire, almeno per me, aprire e chiudere collaborazioni a tempo, e nel frattempo investire tempo in nuovi progetti e coltivare in maniera equilibrata relazioni umane e professionali: tutto questo richiede un fortissimo impegno di energia, tempo e positività.
Ho scelto di essere freelance per poter realizzare progetti in cui credo, collaborare con persone che stimo e poter scegliere i clienti che amo: sta funzionando, ma non avevo fatto i conti con la mia tendenza all’essere ipercritica nei miei confronti e all’ansia che deriva dal fatto che tra sei mesi non so quanti soldi avrò sul mio conto.
Sto quindi imparando a gestire anche questo aspetto, per cui occorre più pazienza di quella che immaginavo, e che per me è un compito più difficile rispetto a coordinare progetti e redazioni.
La storia di Andrea mi ha riportato a due realtà, la prima è: sai stare a galla anche quando la tua testa ti dice il contrario. Stare a galla che è più che sopravvivere, e che per me è la consapevolezza che so lavorare bene anche quando temo di non farcela (o quando l’universo intero mi sembra più in gamba di me).
La seconda realtà (che dovrei ricordarmi più spesso) è che una volta in acqua giocare col pupazzo è davvero divertente, molto più che stare sul bordo a osservarlo per capire come arrivarci: lavorare col cibo vuol dire vivere in un ecosistema dove i valori della convivialità e della condivisione hanno un ruolo centrale, in cui il piatto finito o l’ingrediente finale hanno una storia umana alle spalle e dove il tuo compito è raccontare quella storia. È un lavoro bellissimo, diamine, e bisogna proteggere questa consapevolezza, insieme a quello spazio ludico che è parte integrante del rapporto col cibo.
In questo post ho detto tantissimo, recuperando quella parte del blog che per mancanza di tempo faccio un po’ fatica a gestire e mettendo in pratica quello che ho imparato in questi mesi: in mezzo alle correnti negative, nelle giornate in cui vorresti solo essere inzuppata in una ciotola di cioccolata calda, è necessario trovare del tempo da dedicare a te e a chi ami.
In ambito personale e professionale (e nel food più che mai) le persone sono le sole cose che contano e il tempo per te e per loro è il solo che vale la pena ritagliarsi.
Insieme a quello per una cena a base di polpette, ovvio :-)
Un post bello, vero, onesto, condivisibile… :-*