[Post in collaborazione con Helpcode]
In una delle mie vite parallele, ho frequentato la facoltà di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, e lavoro in Bretagna nell’azienda del Burro di Bordier. O ancora: ho studiato antropologia, e dirigo un laboratorio a Copenaghen dove sviluppo ricette che preservano ingredienti locali di diversi paesi del mondo.
Il cibo delle mie alter ego dovrebbe sempre portarmi altrove, che coincide anche con l’idea che molte persone hanno del cibo in genere: una via di fuga, un accompagnamento a certe emozioni, un nodo che contiene un’idea di noi. Il cibo, oggi, include spesso un pubblico, reale o immaginato.
Questo accade nella nostra parte del mondo: bianca, benestante, turbocapitalista. E rendersene conto è possibile se siamo persone politicizzate, se viaggiamo spesso e non solo in occidente, e se siamo disposte ad accogliere delle esperienze di vita che conducono a un’idea del cibo opposta.
Ecco la premessa a questo post: enunciare l’idea che abbiamo del cibo, per comprendere da dove nasce. Guardare al contesto, per inserire gli ingredienti e gli aggettivi che usiamo all’interno di un luogo, e di una capacità.
Comincia da qui, quindi, un viaggio in altre idee del cibo: andiamo a Magude, vicino Maputo, in Mozambico. Siamo con Helpcode, l’ONG con cui collaboro e grazie a cui conosco da vicino progetti agricoli, educativi e di sostegno nella lotta contro la povertà.
Dentro un istituto agrario di Magude
È aprile, ed è inverno qui. L’inverno non è pioggia o freddo, anzi: c’è un bel caldo secco, e la sera tira il vento. È mattina quando arrivo all’Istituto Agrario di Magude, si chiama IAMa: sono venuta a intervistare degli studenti – cosa studiano, ci arriviamo -, all’interno del progetto “Dal campo al mercato”, di cui conosco un pezzetto dietro l’altro.
Il progetto è finanziato da AICS, l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo.
Da lontano sembra una scuola di altri tempi, con questo legno celeste, un porticato assolato, e un cortile con vecchie moto e alberi. Sul retro, c’è un ampio orto, che più che servire per produrre, aiuta a imparare: qui i ragazzi fanno un percorso tecnico-professionale di 3 mesi, con una formazione subito spendibile sul mercato.
Gli studenti sono circa 90, tra i 16 e i 27 anni – solo due persone hanno più di 30 anni. Arrivano dal mato, dalle associazioni con cui Helpcode collabora, e questa formazione serve a tante cose: in prima linea, apprendere capacità tecniche, e sviluppare progetti autonomi. Insieme a questo, fornire strumenti con cui migliorare la capacità produttiva delle associazioni, fare esperienza di contesti formali come quelli aziendali, e commerciali.
Helpcode ha dato forma e solidità a questa formazione: si è fatta carico della progettazione, della retta, degli stipendi dei docenti, e di tutto quello che serve a questi ragazzi per vivere per 3 mesi lontano da casa. Ha preso contatti con delle imprese del territorio, dove gli studenti svolgeranno un tirocinio. Finanzierà dei progetti dei ragazzi, come start up.
Conoscono i loro genitori, le loro case. Si preoccupano che gli eventuali tirocini siano vicino casa, perché qui, a spostarsi per chilometri, ci vogliono giornate.
Cosa studiano, in 3 mesi
Visito l’aula dedicata alla trasformazione del cibo, dove si insegna a conservare, essiccare, mantenere: piastrelle celesti, mobili di legno e vetro, una stufa, procedimenti scritti su fogli di carta bianca e pennarello e appiccicati alla parete. Sembra quasi una cucina domestica, anzi: sembra una “nostra” cucina.
Qui i ragazzi imparano a lavorare gli alimenti per conservarli più a lungo, venendo a contatto con ricette, materiali e conoscenze che non sono ereditarie: nessuna nonna gli ha insegnato a fare le marmellate.
Gli scaffali contengono carote in sottaceto, gelatina di banana, dolcetti di farina di noccioline, e nel forno ci sono delle confezioni plastificate di pesciolini essiccati. Cibo che dura più a lungo, che si conserva, che può essere immagazzinato o venduto.
E poi: nell’orto imparano la produzione di ortaggi, in un’altra area l’allevamento di polli da carne, e delle galline per la produzione delle uova, e in aula prendono appunti di marketing e di business plan.
In Mozambico l’80% delle persone lavora in ambito agricolo, che costituisce il 24% del PIL.
Tanta agricoltura su piccola scala, ma anche scarsità di accesso a: servizi, mezzi di produzione. Ci sono filiere che devono essere create, e questo parte dalle competenze tecniche e agrarie: l’obiettivo è quello di costruire un modello di economia circolare locale, dove tra i risultati ci sono quello di conservare e commercializzare colture ad alto valore nutrizionale.
Le idee sul cibo
Fancelina Orlando si sveglia alle 4.40, come gli altri studenti. Le lezioni cominciano alle 6.30, quando vengono suddivise le attività: lei ha scelto l’orticultura, ma la sua passione è l’essicazione della carne. Dove vive, a Moamba, la carne di solito viene tagliata, messa sottosale, ed essiccata al sole. Col forno, ora, ha visto che il risultato è migliore, ci sono meno perdite. Dove vive non c’è energia, ma un paio di tecniche le porterà a casa.
Sabado Luis invece, odia l’agrotrasformazione: è complicata, dice. Sono le 9.50 quando torna in aula con Fancelina: lui arriva da Magude, e qui a scuola ha imparato a coltivare il cavolo, barbabietola, carote, e insalata.
Vanno avanti fino alle 12, quando c’è la pausa pranzo. Mi avvicino a Zacarias, che arriva da Manhiça: ha 25 anni. Dice che i suoi genitori sono contentissimi che lui sia qui: non hanno mai avuto le condizioni per finanziare degli studi, e qui sta imparando cose che porterà a casa.
Parlo con Cecilia Zitha dell’associazione Tiyesselane, di Moamba: sono le 13.00 e stanno tornando in aula, dove faranno lezioni teoriche fino alle 17.25. Lei adora la parte del business plan: ha imparato come si fa un prezzo, e vorrebbe gestire un piccolo commercio dei prodotti della sua zona. Prima, mi dice, l’unico prezzo che conosceva era quello del mercato: quello che fanno gli intermediari. Ora ha delle conoscenze sulla qualità del prodotto.
Alle 19 i ragazzi cenano. Prima di andare via, scambio due parole con Daniel Alfredo Machava, 21 anni, dell’associazione Tsakane Nwatsekula di Magude. Quando esce si aspetta di portare avanti una sua produzione in maniera migliore, e in maggiore quantità. “Ho già imparato tantissimo”, mi dice prima di salutarmi.
E quindi, quale idea possiamo riformulare del cibo? Io ho raccolto l’idea che hanno questi ragazzi: uno strumento per garantirsi le forze, per lavorare, per alimentare la famiglia.
Del cibo, insomma, possiamo fare altro quando abbiamo superato il livello di necessità, ed è per questo che noi possiamo sognarci in Francia, nei paesi del nord, online. Loro no, ma non significa volere meno.
Ho voluto raccogliere queste storie sapendo che non sarebbero arrivate risposte pindariche, consapevole di un bisogno che abbiamo in molt*: quello di riportare il cibo al suo punto di partenza. Quello in cui le persone, per nutrirsi, passano per l’educazione e la comunità.
E voi, che idea del cibo avete? Venite a raccontarmelo su Instagram.