Sangue, ossa e burro: il libro di Gabrielle Hamilton

Gabrielle Hamilton è lo chef del Prune, a New York, ed è anche una Food Writer.
Questo libro non è quindi una biografia dietro cui c’è un ottimo ghost writer, come quelli a cui ci stiamo abituando in Italia, ma un’autobiografia a cui un editor ha dato qualche limata e ha aggiunto un po’ di panna.

Infanzia, studi, esperienze, gusti: il libro articola con scrittura densa ed emotiva quello che è un percorso fatto di Sangue, Ossa e Burro di uno chef, qui casualmente donna. Dalla formazione del gusto in famiglia agli insegnamenti trovati in luoghi impensati, la Hamilton ribadisce con questo libro la complessità che sta alla base dell’amore per la cucina quando, come in questo caso, la passione e la capacità di mettersi in discussione camminano insieme, lungo uno stesso percorso.

La Hamilton non è uno chef nato col sangue da chef, ma una persona che ha imparato a cucinare facendo catering e a scrivere frequentando corsi all’Università: l’esperienza prima di tutto, il desiderio di imparare, e poi il caso e la tenacia che ha voluto che tutto questo venisse messo in pratica in un ristorante tutto suo, e in un libro con la sua firma.

Il cibo non è il primo protagonista del libro: certo, tra le pagine si annidano animali, ricette, spezie che fanno parte del bagaglio culinario della Hamilton, ma non è il cibo che ci aspettiamo da un libro di un ristoratore. La cultura editoriale italiana ci ha infatti abituato a chef che spiegano la propria filosofia, la spesa, le ricette, il rapporto con l’ingrediente (e daje col rapporto irrisolto con le zucchine), che hanno avuto un’infanzia in cui i concetti di squadra, educazione, rigore li hanno accompagnati dallo svezzamento allo stage. Poi, solo la gloria.

Il cibo della Hamilton è compagno di vita, ed è una vita di viaggi, droghe, amori, passioni, paure.
Non siamo abituati a sentir parlare di paura in cucina, né di vita oltre la cucina in generale.
La Hamilton è persona prima che chef, è realmente competente nel foodwriting ed è viva, qualsiasi cosa questo significhi: in letteratura, vuol dire che state affrontando la lettura di un Food Memoir, e che no, non troverete la ricetta del tacchino né l’ispirazione fulminante di fronte al banco del pesce.

Due cose che non mi sono piaciute:

1. La struttura narrativa che svela l’incoerenza della storia in certi punti: se è lecito cambiare idee e opinioni a distanza di dieci anni, ci sono cose che proprio non tornano, e certi flashback sembrano poco plausibili.

2. La poca omogeneità che c’è tra lo spazio dedicato ai diversi momenti: se l’infanzia torna spesso, pochissima attenzione merita il Prune, e avrei apprezzato più momenti riservati alla gestione del ristorante che l’ha resa famosa.

Ho letto il libro in pochissimi giorni, e so che se venisse pubblicato un suo libro di ricette vorrei acquistarlo.

 

 

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