Il cibo spaziale: intervista a Stefano Polato

È possibile mangiare una zuppa in assenza di gravità? Che funzione ha il cibo quando vivi all’interno di una stazione spaziale e fuori dalla tua finestra non ci sono alberi e macchine ma pianeti e la Terra vista dall’alto? Esiste il junk food come rimedio alla solitudine dello spazio?

Mi chiedevo questo qualche sera fa, quando grazie a Gnammo sono stata ospite di Argotec, l’azienda aerospaziale torinese che tra le altre cose ha sviluppato lo Space Food Lab, un’area di ricerca intorno all’alimentazione degli astronauti: quella sera abbiamo mangiato il #CiboSpaziale, ossia le preparazioni che vengono poi inviate nello spazio come supporto alla normale alimentazione degli astronauti. Piatti equilibrati, studiati a lungo con l’obiettivo di nutrire correttamente e nello stesso tempo di far sentire a casa chi è centinaia di chilometri da casa, in alto nello spazio: alcuni li potete trovare in vendita sul sito Ready To Lunch, tutti li potete assaggiare dal vivo durante le cene che organizza Gnammo dal 22 aprile a Venezia al 14 maggio in diverse città d’Italia.

cover zucca FFF Ready to lunch

Per una che è cresciuta col naso dentro i libri di astronomia, la curiosità ha avuto il sopravvento, per cui ho intervistato Stefano Polato, lo chef ufficiale della missione Futura di Samantha Cristoforetti, la donna che da qualche mese riesce a farci volare intorno alla Terra con lei. Premessa: l’intervista è lunga, ma copre così tanti aspetti del cibo che non mi andava di tralasciarne nemmeno uno. In più, ci sono un paio di domande che mi ha suggerito Roberto Pasini che erano troppo belle per non proporle.

Stefano non è un astronauta, ma ha una curiosità scientifica tale che quando gli chiedo se gli piacerebbe andare nello spazio, mi risponde che “sì, anche solo per osservare cosa succede quando in assenza di gravità si separano il tuorlo dall’albume”. E pensare che a volte non riesco a farlo nemmeno nella mia cucina, penso sottovoce. Laureato in lettere a Venezia, Stefano ha frequentato i corsi alla Boscolo Etoile, per poi collaborare con un gruppo della Grande distribuzione per sviluppare ricette per il loro giornale: lì ha conosciuto Filippo Ongaro, medico nutrizionista che gli ha cambiato la vita, e il modo di vedere la cucina.

Cosa ti ha trasmesso il Dott. Ongaro?

Due concetti fondamentali: la nutrigenomica, ossia il fatto che i nostri geni cambiano a seconda di quello che mangiamo, e quello di epigenetica, che si riassume in: “tutto quello che ci circonda cambia il nostro organismo”, applicato agli alimenti. L’ingrediente, in pratica, si comporta in maniera diversa a seconda di come lo trattiamo: è importante trovare un metodo di cottura che ne preservi le caratteristiche.

Nella mia cucina, quello che faccio è “srotolare il piatto” e capire cosa succede agli ingredienti, da soli o in combinazione con altri: è importante conoscere la loro resa, e il modo migliore perché vengano assimilati.

Ad esempio: lo sapete che se assumete la curcuma col pepe nero riuscite ad assorbire quattro volte in più l’effetto antiossidante e antibatterico della famosa polverina gialla?

Nello Space Food Lab, i piatti vengono cotti con un processo di termostabilizzazione a bassa temperatura: una specie di gigantesca pentola a pressione che cucina gli alimenti sottovuoto in un bagno termostatico. Più lavori sulla pressione, più puoi regolare la temperatura, meno deteriori gli alimenti.

Gli ingredienti che Stefano usa sono biologici, e viene da chiedersi quali sono i motivi reali (se è marketing, o sostanza, in pratica).

La premessa è che il cibo del futuro deve allinearsi a una tendenza già in atto, quella dell’attenzione ai metodi di lavorazione nell’agricoltura come nell’allevamento. Il biologico fornisce questa garanzia, e vado personalmente a visitare campi e fattorie per conoscere dal vivo chi produce e come lo fa.

L’altro motivo è che nei piatti che cucino necessito di una materia salubre e priva di agenti chimici:  nell cottura in termostabilizzazione il prodotto viene inserito a crudo, inserisco quindi la dose di liquido per cuocerlo, chiudo il sacchetto e procedo col trattamento. Tutto quello che inserisco nella busta, quindi,  rimane nella busta e se lavoro in una busta sottovuoto non posso eliminare gli agenti estranei. Per questo la materia all’origine deve essere più buona possibile.

Da quando è iniziata tutta questa attenzione a quello che gli astronauti mangiano? È sempre stato così o venti anni fa gli astronauti mangiavano schifezze?

È nato negli ultimi anni, dal 2000 in poi quando sono iniziate le missioni di lunga durata. È cambiata la necessità: il cibo doveva essere sia appagamento psicologico che nutrizionale. Ci sono stati diversi astronauti che ci hanno aiutato: Luca Parmitano, il primo che ha cercato le eccellenze italiane, e poi Tim Peake,  Andreas Mogensen, Alexander Gerst. È stata Samantha che ha dato il maggiore contributo: in combinazione con Expo 2015, ha da subito puntato a una sana alimentazione che desse prima di tutto benessere psicofisico. Ha scelto frutta, verdura, cereali in versione integrale, niente sale e niente zucchero, tante spezie, e piatti che fornissero i micronutrienti, ossia vitamine, sali minerali, antiossidanti.

Ricordiamo una cosa importante: il corpo umano, in assenza di gravità, soffre maggiormente di osteoporosi, malattie cardiovascolari, ritenzione idrica, invecchiamento cellulare, stress ossidativo. I piatti dello Space Food Lab provano a bilanciare queste carenze

Piatti buoni, sì, ma come si fa a renderli anche gustosi?

Direi che è il lavoro più grande, anche perché siamo italiani e il gusto è una delle nostre bandiere più grandi. Si fa selezionando tantissimo gli ingredienti: usando le spezie al posto del sale, scegliendo un pollo che abbia una carne già sapida perché viene alimentato con certi standard, acquistando legumi che crescano su terreni minerali e abbiano quindi già un apporto salino naturale. Ad esempio, per i nostri smoothie siamo andati in Trentino (anche per fare un regalo a Samantha, è la sua terra) e insieme ai contadini abbiamo verificato il momento giusto per raccogliere la frutta, quello in cui avesse l’equilibrio maggiore tra grado zuccherino e pH.

Come funziona un menu di un astronauta? Ha libera scelta, o ha un’alimentazione prestabilita?

Ogni astronauta ha un nutrizionista in capo: integra i loro menu con quelli dello Space Food Lab. Ogni due giorni gli astronauti vengono sottoposti ad analisi per verificare le loro condizioni di salute e in caso di esiti poco equilibrati si bilancia con integratori e fitofarmaci.

Su Ready To Lunch vendete i pasti spaziali: sono uguali a quelli che inviate nello spazio o hanno accorgimenti diversi?

Gli ingredienti sono gli stessi, ma cambiano le consistenze: quelli che vendiamo online, ad esempio, possono permettersi di fare briciole, cosa che nello spazio non possono fare.

Si bevono mai alcolici in orbita? (Indovinate chi ha fatto questa domanda, Ndr)

No, l’alcool è bandito soprattutto per questioni di immagine. L’astronauta, visto dalla terra, è una specie di supereroe. L’alcool minerebbe tutto questo.

L’intervista è finita, vi lascio dei link di approfondimento:

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