Cosa serve per raccontare una storia

È domenica sera e sono tornata da una giornata divisa a metà: la mattina una tavola rotonda sulla scrittura, poi un pranzo con un’amica, e il pomeriggio in un mercatino dell’artigianato con un’altra amica, parlando di progetti legati al cibo.
Quante vite, penso ogni volta.

È un periodo di grande fiducia, questo, in cui se devo ringraziare qualcosa penso a un solo soggetto: la scrittura.
La scrittura di Lingua, dei post su Instagram, dei contenuti per i miei clienti: sono l’insieme di parole e di intenzioni che mi stanno mettendo in relazione con persone incredibili. Che mi stanno dando occasioni a cui mi sono sottratta in passato. Che mi danno la consapevolezza di quanto le storie tocchino corde universali.
Quindi quello che vorrei fare oggi è provare a mettere un po’ di ordine, partendo dal mio percorso, per dire cosa serve per raccontare una storia.

1. Cosa ci vuole: un pubblico

Ho avuto moltissime parole nella mia vita: ci sono stati i diari che tengo da quando ho 13 anni, con alcuni periodi di interruzioni. Ci sto tornando in queste settimane per aiutarmi con la psicoterapia, e se da una parte ritrovo i fatti, da un’altra inciampo in un cumulo immenso di sensazioni che ho tenuto sotterrato a lungo, e che ho sempre risolto ed esposto con la parola scritta.

Ho sempre scritto per colmare il vuoto delle relazioni: oggi, scrivo per rinegoziare le condizioni dell’amabilità.
Sono stata amata molto, nella mia vita: molto spesso, in maniera disfunzionale.
Scrivere mi ha sempre permesso di esporre la parte più funzionale, o perlomeno: di comunicare con persone che potessero conoscermi attraverso la parola scritta, l’unica parola alla quale non mi sono mai sottratta.

Scrivere mi ha dato un pubblico, scrivere è stato il modo di farmi conoscere, e apprezzare.
Poi con l’adultità e la psicoterapia, l’identità più riflessiva e parlata e quella di carne e di slanci sono diventate qualcosa di rotondo, di integro.
Il cerchio si è chiuso con le parole di mia madre, che dopo aver ascoltato Lingua mi ha detto:

Ascoltare queste parole mi ha ridato una figlia

Perché mi sono sottratta anche a lei, e quando ho deciso di espormi, e scrivere Lingua, ho permesso anche a lei di conoscermi un po’ di più.
La scrittura mi ha permesso di ampliare le condizioni dell’amabilità, andando lontano, e tornando alle radici.

Il 22 settembre, nel diario di Lingua, scrivevo così.

Lingua è un lavoro anche di riscrittura. Di semplificazione di quello che voglio dire, per renderlo universale. È la fine della scrittura diaristica per mettermi al servizio del lettore, in un formato nuovo, lungo, diverso dagli altri con cui mi sono confrontata.
È l’esercizio di farsi capire, di uscire da concetti criptici per offrire al lettore una storia in cui possa immedesimarsi, facile da capire.
È un lavoro che spazza via le mie insicurezze, per mettermi alla prova e fare di meglio.
Non è facile questo lavoro di “traduzione”. Ma è un impegno a fare meglio.
A farmi capire, che è anche un po’ farmi conoscere.

Per raccontare una storia ci vuole un pubblico, fatto di sconosciuti e anche di familiari, e la capacità di raggiungerlo.

2. Cosa ci vuole: il coraggio

Quando avevo 18 anni avevo scritto un romanzo: si chiamava La 53° guerra, ed era una storia di una relazione amorosa composta da lettere, prosa, flashback. Metà era raccontata dalla protagonista e l’altra metà da una figura quasi aliena che viveva in un mondo senza vita.
Era immaturo, ma venni comunque contattata da una casa editrice piuttosto famosa: forse ci avevano visto una coraggiosa sperimentazione. Quel libro non venne mai pubblicato perché mi chiesero altro materiale e quello che gli mandai non li convinse: avevano ragione, non avevo le carte e lo spessore per diventare un’autrice. Ho scritto altre cose, ne ho abortite altrettante.

Col tempo la scrittura è diventata scrittura professionale: testi per siti, about page, contenuti social. E poi tutta la parte dei miei canali personali, di Medium, del blog.
Tante vite, come dicevo all’inizio, insieme a una distribuzione di intimità bilanciata da una consapevolezza dei talenti e da un’esperienza di vita e di lavoro sempre più ampi: nella vita, l’età e la testa con cui arrivi alla scrittura conta parecchio.

Il 23 maggio 2019 scrivevo nel diario di Lingua

Dove scrivere, e per chi, non è un atto neutro: ti dà o ti toglie coraggio e slancio.
Ieri mi è venuto in mente quando Enrico voleva mettermi alla direzione di ZeroBologna: era l’università, era quando avevo paura di chiedermi chi volessi diventare. E invece di prendere parte al concilio di me stessa un pezzetto per volta, ho chiuso i portoni e sono andata a cercare le nespole per distrarmi. In alcuni momenti, sto ancora facendo torte.

Ecco: per raccontare storie serve un certo tipo di coraggio.
Quello di volersi prendere carico di cominciare e chiudere un lavoro molto faticoso: il lavoro di cesellare le parole, di ricercare l’aggettivo corretto, di asciugare e di scrivere qualcosa di rilevante. Ci vuole il coraggio di superare la frustrazione e fare di meglio. Sempre meglio.

3. Cosa ci vuole: una feritoia

Ho sempre pubblicato libri professionali legati al mondo dei freelance e a quello degli eventi e delle Digital PR: ho scritto dei manuali e dei testi di divulgazione per aiutare le persone a fare meglio il proprio lavoro.

Esistono però tantissimi modi per trasmettere dei contenuti, anche quelli professionali: “ci vuole una storia”, si dice, e ogni tanto si traduce nella degenerazione dello storytelling.

Ma: le storie sono feritoie. Sono le aperture che permettono alle persone di attivare ricordi, sensazioni, paure. Sono quello che permettono di elaborare il proprio vissuto: sono i frammenti di vita che ti prendono per mano, e ti consegnano un finale.

Il 12 agosto scrivevo nel diario di Lingua

Ci vuole una certa faccia e tempra d’acciaio per portare le persone ad aprirsi, a farle sentire a proprio agio: io lo faccio con toni caldi, ascoltando dove la voce si rompe, ed entro, con cautela ma anche con decisione dove vedo le ferite, le fratture.
E gli chiedo di aprirle, e di raccontarmele.
Ci vuole empatia, e consapevolezza.
Ci vuole avere a mente il risultato che vuoi ottenere, e il legame che serve per raggiungerlo.
Ci vuole coraggio ad aprirle quelle ferite, e dirle: tu raccontami quello che vuoi, reggo ogni cosa.

Le interviste e le storie di Lingua sono state il veicolo per parlare di divorzio, di suicidio, di anoressia, di tumore e di tanto altro: sono state il modo in cui le persone che le hanno ascoltate si sono riconosciute: e sempre, sempre c’è un finale.

4. Cosa ci vuole: densità

Da giovanissima avevo un rapporto di odio/amore con la scrittura: pensavo fosse un filtro di vetrocemento che mi lasciasse a chilometri dalla vita, distante dall’azione.
Se scrivi, assorbi i fatti.
Se vivi, li lasci andare.

Ogni vita può contenere da 1 a 300.000 episodi dolorosi, che lasciano sempre dei segni: all’interno, e sul corpo. Io, come tanti, ho avuto i miei.
Negli anni ho elaborato, da sola o assistita: ho piegato in mille foglietti quello che è stato, l’ho ordinato, l’ho condiviso sempre un po’ di più. Di base quello che sono è fatto di materia intelligente, riflessiva, consapevole: sono molto fortunata a essere una persona resiliente e ostinata, perché nulla mi ha davvero schiacciato.

Ho guardato la mia vita in faccia, sono stata brava, bravissima ad attraversarla: le persone che davvero mi conoscono invidiano la mia capacità di vedere sempre le cose con occhio oggettivo, di saper capire, di saper andare oltre.

Tutto questo è vita, ed è scrittura: la consapevolezza è saper accogliere gli urti, le fratture, gli scoppi, gli entusiasmi. E decifrarli, inquadrarli, dargli un contesto. Una storia.

Questa volta non vi lascio le parole del diario di Lingua, ma di Alessia, una persona che conosco poco, ma che mi capisce molto. Qualche giorno fa mi ha scritto dopo aver ascoltato i primi episodi di Lingua.

Si sente la densità di chi è consapevole del proprio percorso e della propria vita

Per scrivere una storia ci vuole densità, e consapevolezza: perché solo con quella riesci a portare la resilienza in quello che scrivi, e a capire come orientare gli effetti della vita sulle persone.
La densità è quel che ti permette di avere un inizio e una conclusione. È lei che ti fa dire: se è cominciata male, può finire benissimo.

[Photo by Federica Giusti on Unsplash]

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