Questo weekend sono andata al Freelance Camp e la notte del sabato non sono riuscita a dormire molto, così ho fatto i conti: ho lavorato sette anni in azienda, quattro da freelance.
I conti mi servivano per il panel del giorno dopo, quello che ha chiuso questa edizione del camp: il titolo era Alcune domande scomode, dove Gianluca moderava una chiacchiera sui mondi azienda e freelance tra me, Francesca ed Alessandra.
Posso lavorarci
Mentre ero sul palco, dopo qualche minuto, mi si è chiuso lo stomaco (e con lui il cervello): un po’ questioni personali, un po’ la resistenza a entrare in una questione mai affrontata prima dalla sottoscritta, quella della scalabilità.
Scalare vuol dire agire in modo che il tipo di lavoro che fai cresca senza che con questo crescano i limiti o si esauriscano le risorse
(Io l’ho capito con chiarezza alla fine del panel, confrontandomi con altri).
Il panel è quindi andato avanti, io ho rimbalzato il microfono un paio di volte, e ho trascorso buona parte del viaggio a cercare di capire cosa mi fosse successo: l’ho capito più o meno al confine tra la Lombardia e il Piemonte, e mi sono detta “Ok, posso lavorarci”.
Questo “posso lavorarci” è uno dei grandi regali che mi ha fatto questa edizione del Freelance Camp.
Questi gli altri.
L’ego
Enrico Marchetto ha tenuto uno speech dal titolo Cinque cose che farei su Facebook se fossi un freelance, parlando tra le altre cose in maniera sublime dell’Ego: aprire una pagina Facebook o tenere un profilo privato? Con cosa riempio il mio calendario editoriale? E soprattutto: davvero penso ai miei clienti quando creo e distribuisco contenuti?
L’ho ascoltato con molta ammirazione, per poi guardare con i suoi occhi il mio calendario editoriale (blog, Instagram, Facebook, newsletter): ei, ma io ai miei clienti non ci penso molto, ho dovuto ammettere.
Parlo di me, di viaggi, di cibo, di sentimenti, di cambiamento: mostro sempre la trasformazione, l’introspezione rispetto a un passaggio o a un evento.
Così mi creo fan: certo, mostro quelle soft skill che piacciono ai miei clienti, ma non le competenze. Mi sono chiesta: è un problema? La risposta è: ve la racconto tra qualche anno.
Fermarsi
Emanuele Tamponi ha tenuto un bellissimo e ansiogeno speech sul burn out: quando il sovraccarico di lavoro e di tensioni ci esaurisce, e come fare a prevenirlo fermandoci quando riconosciamo certi sintomi. Uno dei segnali di cui ha parlato è l’umore: raggiungi un obiettivo, e invece di gioire non sei contento, anzi, sei pure un po’ apatico. Vi risuona?
Qualche giorno fa parlavo con un’amica di questo stato di apatia che provo in certi momenti, parlando della differenza tra le cose che sai fare e quello che ti piace fare: aver ascoltato Emanuele mi ha aiutato a mettere a fuoco questo passaggio, magari aiuta a vedere le cose in maniera più nitida anche a voi.
La relazione col cliente
Roberta Zantedeschi quest’anno ha tenuto lo speech migliore di sempre: l’ho sentita parlare diverse volte, e sabato ha brillato. È una ragazza a cui voglio un gran bene, perché dovunque esploda lo fa con una carica positiva, e con cuore.
Il suo intervento riguardava il vendersi, conoscendo il tipo di cliente che abbiamo davanti e dando a ogni tipologia quello di cui ha bisogno: rassicurazione o creatività, precisione o informalità. A me è sembrato un modo fantastico di dire: non sono io, sei tu, nel senso migliore del termine.
Se sappiamo che non riusciamo a donare alcune cose, perché ci costringiamo in rapporti con clienti che hanno bisogni che non potremmo mai soddisfare? Quindi: prima conoscersi, poi conoscere il cliente, infine valutare se è il caso di approfondire la relazione.
Almeno 200
Il primo Freelance Camp si è tenuto nel 2012, il primo a cui ho partecipato è stato quello del 2013, e qui tutti gli altri numeri. Sarei stata una freelance diversa senza questo camp, avrei capito forse con più lentezza che non esiste una sola condizione o un solo modo di essere freelance, ma ce ne sono almeno 200 – quanti sono i partecipanti.
Ognuno con una sua storia, con una sua esperienza, con una sua rete: sarebbe bello se questa diversità fosse un patrimonio personale e collettivo più evidente, più radicato. E invece capita di perdersi ogni tanto, di desiderare di essere altro, più come quello, meno come quello. Di perdere la propria singolarità per delle aspettative, di non mostrarsi per timore del confronto o del conflitto.
Sapere cosa ti piace fare, chi sei, in cosa investi e cosa vuoi ottenere quando sei freelance: partecipare al camp aiuta a trovare un po’ queste risposte, a capire quanto conta essere esattamente chi sei.
Voglio ricordarmelo sempre di più anche io.
Le foto
Qui trovate tutte le foto di Roberto Cortese e Damiano Tescaro, qui tutti i video di questa edizione.
Grazie ad Alessandra e Silvia, e a Gianluca e Miriam: che pieno di energia, ogni volta.